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NICOLA PELLECCHIA E IL SUO MARE

Ditgprocida

Ago 20, 2014

Sebastiano Cultrera | “Nicola non è morto” dice Pina de Rienzo al termine del commovente incontro della serata del luglio scorso. “Nicola non è mai nato” pensavo, ché gli esseri immortali sono eterni, senza inizio e senza fine.
A Nicola Pellecchia è dedicato “Il mare non ha mai viaggiato”, una raccolta di racconti di Giuseppina de Rienzo, giornalista e scrittrice legata a doppio filo alla nostra isola.
La presentazione avvenuta a Procida presso la libreria “Nutrimenti” con gli interventi di Massimo Andrei e Luciano Ferrara e con il contributo di Luca Palumbo si è svolta in un clima di vero confronto culturale e, sopra tutto, ha suscitato momenti di intensa partecipazione emotiva.
Nonostante fossi memore delle ottime qualità dell’autrice, confesso di avere acquistato il libro soprattutto per l’avida curiosità di leggere le pagine relative alla vicenda dell’amico Nicola Pellecchia: “Adèla la rustica” è scritto con la penna impugnata come una macchina fotografica, cui abbisogna la giusta distanza per mettere a fuoco il soggetto. Ne sortisce, in questo modo, un cuore messo a nudo, che, sereno, continua a sanguinare. Ma mi hanno coinvolto anche gli altri racconti: che sono belli, alcuni molto belli e coinvolgenti.
Sicuramente nel vissuto della scrittrice il Mare e Procida sono dei punti fermi attorno ai quali ruotano idee, immaginazioni, fatti di vita consumati e assaporati. C’è la riscoperta del mare come liquido amniotico dell’intero viaggio umano, con le perigliose navigazioni di anni come Omero o vicende di un giorno di Joyce. Con lo stesso sguardo a metà tra il neorealista e l’onirico del “Mare non bagna Napoli” ci fa capire che, invece, l’isola di Procida è fatta della stessa sostanza del mare: un’isola che non ha mai viaggiato e che, per storia e cultura indelebili, è, invece l’essenza stessa del viaggio.
L’isola di Procida è il suo mare! Con un grande accento sulla e. Questa semplice e complessa verità Nicola Pellecchia l’aveva capita subito. L’aveva capita quando da ragazzo veniva sull’isola d’estate. L’aveva capito quando i gabbiani, fuori la cella dove si trovava ristretto, gli alitavano addosso il profumo del mare e della libertà. L’aveva capito quando, tornato a Procida, abbracciò, appassionato, la causa della sopravvivenza dei pescatori locali, che è la sopravvivenza delle loro imprese, delle loro famiglie, ma soprattutto la sopravvivenza di ciò che di vitale è rimasto, in loco, della cultura marinara dell’isola.
E la fame (raffinata, incantata, e talvolta famelica, onnivora, distruttiva) di esperienze dell’amico Nicola si incontra con la filosofia gramsciana del cambiamento come strumento di comprensione. Poi trova finalmente appagamento nel più grande e importante luogo e veicolo di conoscenza che la Storia ha conosciuto: il Mare!
“Per quanto riguarda me e i miei ideali, rifiuto però l’etichetta di terrorista, perché quella è una categoria priva di significato, è marchio mediatico, l’assolutizzazione del problema” ci racconta Pellecchia-De Rienzo.
Beh forse la definizione di navigante, nel grande mare della vita, non gli sarebbe dispiaciuta.
Magari in quel mare “colore del vino” di Omero e dei lirici greci, dove Dioniso introduce l’uomo all’immancabile “terrorismo” della conoscenza.
E proprio lì, nel “Mare color del Vino” scorrono anche i racconti di Leonardo Sciascia, e l’immancabile “causalità della casualità” ci fa planare, coi temi dello scrittore siciliano, finalmente nel vero SIMBOLO incarnato da Nicola Pellecchia: quello dell’INGIUSTIZIA; sia nel senso dell’impossibilità della giustizia umana, sia , in quello, banale, ma che ha segnato la sua vita: della inadeguatezza del nostro sistema giudiziario, talvolta autopromosso ad una funzione “morale”, con lo strumento (impersonale e, quindi CONTRO le PERSONE) delle condanne ESEMPLARI. Che sono, appunto, il cattivo esempio di cosa dovrebbe essere la Giustizia.
In alcuni momenti memorabili, ricordo di avere condiviso con lui, e con un equipaggio di amici, alcuni incontri, e cene, cui la sua presenza contribuiva a nobilitare in simposi enogastronomici, dove si affermavano l’amore del cibo, l’amore del vino: colore del mare! Lì ho fatto mia una sua riflessione, che provo a sintetizzare.
Procida ha conservato molto della sua identità (moltissimo nei segni della sua architettura più caratteristica), ma anche a Procida, a partire dagli anni del boom, il processo di omogeneizzazione culturale (soprattutto derivante dal boom del consumismo piccolo borghese esploso negli anni 60) ha fatto danni ed ha fatto perdere alcuni tratti identitari dell’isola, insieme con costumi, abitudini e, talvolta, valori, che sono andati smarriti. A partire dagli anni 70 fioriscono in Italia studi, mode, tendenze volte al recupero della cultura popolare che andava già scomparendo. I grandi filoni sociologici di ricerca in tal senso, tuttavia, si indirizzano verso il recupero della cultura operaia tradizionale e quella del recupero della cultura contadina, in particolare al Sud.
Ma la cifra vera per capire Procida non è quella operaia né quella contadina (l’agricoltura è stata solo in minima parte una attività economica autonoma dalla marineria) ma è la sua Storia e la sua cultura legata al MARE, all’armatoria, ai viaggi, ai commerci.
Quelle chiavi di ricerca, e, quindi, ogni comprensione “accademica” della realtà sociale e delle trasformazioni dell’isola di Procida sono risultate, quindi, insufficienti. Secondo Nicola Pellecchia, nelle idee, analisi, progetti che riguardano l’isola di Procida tocca rimettere al centro il mare: SEMPRE. Così sia!

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