Redazione | Elisa (Elsa) è sul letto di morte. Tempo prima ha tentato il suicidio. Poi un’operazione le ha tolto forza, autonomia, la speranza di sopravvivere. Al suo fianco c’è Giannatale (Jean-Noël). Tra loro scorre un canale di ricordi e reciproche confidenze che illuminano di nuova luce alcuni aspetti privati di Elisa e, insieme, della Roma negli anni Sessanta, la Roma pasoliniana, l’epicentro della cultura e del cinema, la città di Moravia. Giorno dopo giorno, durante i loro incontri nella stanza di una clinica, Elisa parla, chiede, ride, si confessa, pretende la stessa spietata verità dall’amico e confidente di una vita. Immersi in un dialogo soffuso di tenerezza amorosa, i due conducono – fino alla morte – il gioco delle verità rivelate.
Dalle confessioni nella stanza 127 della clinica è nato il romanzo-memoir E.M. O la Divina Barbara, quarant’anni dopo la pubblicazione de La Storia e trenta da quegli eventi. Un tempo lunghissimo. «Ho aspettato tre decenni perché mi sentivo depositario di una specie di tesoro. Elsa mi aveva confessato i suoi segreti, per esempio la sua data di nascita. Aveva sempre imbrogliato tutti. Sull’edizione francese di Aracoeli era scritto 1916, invece era nata nel ’12. Della morte non aveva paura, temeva la vecchiaia. Mi aveva raccontato dei suoi due padri. Augusto Morante, il marito di sua madre. Che, essendo impotente, per non perdere la faccia aveva preteso che la moglie si facesse fecondare da un altro. E la madre aveva scelto un siciliano biondo con gli occhi azzurri, Ciccio Lo Monaco, che le aveva dato quattro figli Morante. Lei disprezzava il padre legittimo e considerava quello naturale un estraneo e non ha mai potuto pronunciare la parola papà».
E.M. O la Divina Barbara è un libro che prende allo stomaco per la ferocia con cui la protagonista si svela. La prima cosa che racconta al confidente è l’amore disperato per Luchino Visconti. «Scendevo dal treno, alla stazione Termini» ricordava lei, «e lo incrocio nella hall, l’avevo certamente già visto con Alberto, due o tre volte, un saluto, niente di più, fatta eccezione per quella sua particolare maniera di ridere da gatto siamese che, quella sera, alla stazione di Roma, mi ha fatto sciogliere d”amore… È stato, in un fulmine, il mio idolo e lo desiderai con tutto il mio essere… Abitava in via Salaria, ha fatto una deviazione per il Pincio e, pur continuando a guidare la sua grossa auto, mi ha presa, senza una parola, per il collo e ha forzato la mia testa contro la sua patta…. Questo fu il nostro primo incontro d’amore….» Ma è tutto vero? «Sì. Tutto. I primi due aggettivi che usò parlandomi di Visconti sono stati cattivo e volgare. La loro storia durò tre anni e finì nel 1953, eppure a trent’anni di distanza ancora soffriva al ricordo».
Schifano scrive che Visconti la chiamava nel cuore della notte e pretendeva che Elsa si masturbasse insieme con lui nonostante le dormisse accanto il marito, Alberto Moravia. «Malgrado le mie proteste, i miei rifiuti, l’offerta del mio sesso per l’indomani mattina, se avesse voluto… Non ho tempo domani, non posso, subito, adesso, fatti, dai, il mignolo, il dito piccolo… Fa colare la tua fica, dai, accarezzati… Quando sentiva i miei gemiti soffocati urlava dentro il telefono e un Oh! troia, la piccola troia!… Quando arrivava, sibilava al mio orecchio… E riattaccava senza una parola, senza un soffio di più… Alberto dormiva o fingeva, non l’ho mai saputo…».
Confidenze sempre più intime. Elsa Morante è ormai una fortezza e non fa entrare più nessuno nella stanza 127. Aspetta le visite di Jean-Noël e quando lui va a Parigi aspetta le sue telefonate. «Quando torni?» gli chiede. Ha bisogno del suo confidente, parla soltanto con lui, scatenando la gelosia di Alberto Moravia.
«I due erano separati da oltre vent’anni. Elsa sapeva di Carmen Llera e gli rifiutava il divorzio. Moravia, dopo il suicidio e la prima operazione andata male, aveva acconsentito a una seconda operazione anche se le probabilità di guarigione erano scarsissime. Arrivò una mattina del tutto inaspettatamente. Entrò come un proiettile, zoppicante. Si muoveva a scatti. Io tenevo stretta la mano di Elsa, lui si è chinato sulla moglie che non muoveva un muscolo. Mi riconosci Elsa? Sono Alberto… Ma lei non faceva un gesto. Ricordo come se fosse ieri quella scena. Sentivo la stretta di lei, non voleva lasciare la mia mano. Se ne accorse anche Alberto, perché cominciò a raspare sulle nostre mani per separarci. Vedi che non risponde, non capisce, è entrata in una fase di assenza. Forse voleva provocarla. In effetti era stato Moravia a decidere di continuare a tenerla in vita nonostante non sopportasse vederla ancora viva. O forse aspettava una reazione della moglie che però non apriva bocca, non muoveva un muscolo della faccia».
Voleva punirlo? « Aveva deciso di incastrarlo per tutta la vita. Sapeva che alla sua morte avrebbe sposato Carmen e glielo ha impedito fino alla fine. Alla sofferenza Elsa era abituata, come era abituata alle ingiurie con cui sono stati accolti i suoi libri. Ma di quello non abbiamo parlato. Mi ha raccontato invece dell’ultimo incontro con Visconti in piazza San Marco a Venezia. Lui era attorniato dalla sua solita corte e lei lo chiamò a gran voce e lesse il labiale dell’ex amante: Ci mancava solo la pazza! Allora si alzò la gonna e con le cinque dita scosse il suo sesso urlando Anche io ne ho! Elsa poteva comportarsi come una zandraglia, alla napoletana, nel senso etimologico della parola perché i suoi furori venivano dalle entrailles, dalle sue viscere. Era la più selvaggia delle donne. Quando uscì La Storia, parte della sinistra le si scagliò contro. Andavano sotto casa in via dell’Oca a sbeffeggiarla. Nani che sputano su una gigante! Il Manifesto nell’estate del ’74 raccolse le lettere indignate di alcuni intellettuali di sinistra. Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi che l’accusavano di essere una scrittrice mediocre, reazionaria e una bamboleggiante nipotina di De Amicis. A Elisabetta Rasy, nel 2010 alcuni smemorati hanno dato il premio Elsa Morante».
Continua Schifano: «Non c’è più memoria. Sia che si racconti la grande Storia che la piccola, è sempre un’impostura. Io ho cercato di svelare le imposture, arrivare alle cose vere, non dico al vero. Ho scritto questo romanzo chiamando Elsa Elisa, come lei ha fatto in Menzogna e Sortilegio, e me stesso Giannatale. Ma tutto ciò che ho raccontato è vero. L’ho sentito dalla sua viva voce e da altri testimoni. Sono stato l’ultima persona che ha riconosciuto prima di morire e per lei ho scritto questo romanzo non finito in cui ho esplorato solo le parti della sua vita e della sua opera che volevo illuminare. Opere non finite in letteratura non esistono, nell’arte sì. Questa è la mia Pietà Rondanini, dove il marmo è l’opera di Elsa Morante».
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