Redazione | Una volta dentro si resta subito storditi da un inatteso tripudio di slot machine, addobbi di natale e specchi. A bordo i morti in fondo al mare, quelli bruciati nella stiva, i dispersi e i clandestini, laNorman Altlantic, insomma, col suo carico di domande, sparisce dietro una quinta di lucine e sorrisi tirati a nuovo da chissà quale circolare interna della Compagnia.
Ore 17.30 del 31 dicembre 2014: dal porto di Patrasso parte la SuperfastXII, nave-traghetto della Anek Lines sulla rotta Igoumenitsa-Ancona. La stessa del disastro del 28 dicembre. Ventiquattro ore di Adriatico.
Il ponte 8 e le inferriate. Milioni di persone d’estate l’hanno presa. E potrebbero raccontare di questi ponti che scimmiottano Love Boat, di queste moquette troppo elettriche, di questo equipaggio greco un po’ spigoloso ma in fondo simpatico. Quello che non potrebbero raccontare è tutto il resto: perché d’inverno il traghetto che collega la Grecia all’Italia cambia la sua natura, smette i panni leggeri dei vacanzieri e indossa quelli lisi di camionisti e viaggiatori professionisti, quelli che si muovono anche a Capodanno, per lavoro o per disperazione.
Basta affacciarsi dal “ponte 8” un paio d’ore prima della partenza da Patrasso per essere travolti dalla realtà. Oltre lo sterminato piazzale del porto e la dogana, c’è un’inferriata. Oltre l’inferriata, una fabbrica dismessa: Abex. Tv e giornali, in passato, l’hanno raccontata. È proprio di fronte al terminal. Un tempo era il fiore all’occhiello dell’industria tessile greca. Adesso è nota come il “villaggio afgano”. Perché Patrasso d’inverno è il prodotto perfetto della sintesi tra crisi economica e conflitti mediorientali, la sentina dei due mondi. Da Afghanistan, Siria, Iran e Iraq sfollati e perseguitati arrivano qui dopo viaggi incredibili, occupano i ruderi delle fabbriche intorno al porto in attesa di salire sui traghetti per l’Italia. Le varie etnie si dividono lotti e aree. E agli afgani, i più numerosi, è capitata la Abex, la più grande.
La battaglia di poppa. Appena i camion dal piazzale cominciano a entrare nella nave, decine di ragazzi escono dall’Abex e delle altre fabbriche, si dispongono lungo l’inferriata e aspettano il momento giusto per scavalcare. Davanti a loro, un piccolo esercito di guardie private, con motorini e pistole, è pronto a respingere i tentativi lungo tutto il fronte che sarà lungo un chilometro. La battaglia dura fino alla chiusura del portellone di poppa. Alla fine, in una ventina riescono a passare e a raggiungere gli autotreni. Lì, quelli che si sono rivolti all’organizzazione criminale che ha in mano la situazione — polizia, autorità portuale e camionisti — riescono a imbucarsi dentro qualche container. Gli altri rinunciano o si devono arrangiare “agganciandosi” sotto i camion. Sperando di non essere scoperti.A ogni tratta, mediamente, una decina di profughi, che i marinai chiamano semplicemente “clandestini”, riesce ad arrivare dentro la nave. Lo sanno tutti. Lo sa il comandante, lo sanno i camerieri dei ristoranti di bordo, lo sanno i mozzi, lo sanno i camionisti. E nessuno ha niente da ridire. Anzi, fanno anche un po’ il tifo. Lo ripetono esplicitamente ai pochi passeggeri che fanno domande. “Dicono che siano stati loro a innescare l’incendio sulla Norman accedendo un fuoco per scaldarsi. Ma è improbabile. Sono clandestini. E si comportano da clandestini. Stanno nascosti fino all’arrivo. Più probabile che siano stati i camionisti a combinare qualche casino. Loro spesso preferiscono dormire nelle cabine dei loro camion che sulle poltrone o nelle cuccette. E di notte a decine s’intrufolano in qualche modo nei garage, salgono sui loro camion, accendono stufe, generatori, a volte cucinano persino”.
Come una sala bingo. Sull’innocenza dei clandestini, in mattinata, scommettevano anche gli abitanti della Abex. “Una delle cose che sappiamo fare meglio noi afgani è scaldarci col fuoco — raccontava sorridendo un ragazzo che in Afghanistan faceva l’interprete per l’esercito italiano e per questo è stato bollato come “spia” dai taliban e da allora è in fuga — Sappiamo accenderlo e controllarlo ma la cosa più importante è che sappiamo quando non accenderlo”. L’interprete raccontava che nel pomeriggio avrebbe provato anche lui a salire a bordo nella nave di Capodanno ma — spiegava — sarebbe stato un tentativo senza molta speranza. “Dopo il casino che è successo sarà difficilissimo, i controlli saranno massicci. Se ce la faranno in quattro o cinque, alla fine, sarà un miracolo. Ma per fortuna, come tutte le tempeste, anche questa passerà. I controlli torneranno ad essere normali e prima o poi ce la farò anch’io”.
Dell’insospettabile vita notturna che anima i garage di questi traghetti, popolati di clandestini nascosti e camionisti sonnolenti, negli altri ponti non arriva alcuna eco. Sono due mondi paralleli e distanti quelli che si sono incrociati la notte tragica del 28 dicembre. E da stasera torneranno a esserlo. La stessa circolare che imponeva all’equipaggio i sorrisi di benvenuto, evidentemente, suggeriva anche al comandante l’improvvida iniziativa di festeggiare la mezzanotte del 31 invitando i passeggeri a un party, “una bicchierata al bar del casinò”, sala un po’ kitsch al “ponte 7”. Luogo a metà tra una sala bingo e una reception d’albergo.
La torta e gli incubi. Il rituale risulta grottesco: conto alla rovescia sincronizzato con il canale di stato greco che si sovrappone agli ultimi aggiornamenti sulla Norman Atlantic trasmessi dalla tv italiana che viaggia con un’ora di fuso orario dall’altra parte della sala. Al momento di stappare è tutto uno stringersi di mani e un sorridersi e un abbracciarsi. Una passeggera trova la monetina in simil-oro che il cuoco ha messo nella torta “2015” e vince un premio. Le immagini del battello che tre giorni fa bruciava proprio da queste parti, il ricordo dei colleghi morti o naufragati e dei passeggeri dispersi sono appena un ricordo confinato in un angolo remoto del presente, così come i garage pieni di ombre, tre piani sotto. Soltanto il mare agitato dalla coda della stessa tempesta del 28 dicembre costringe qualcuno a ripensare di tanto in tanto a quei fatti: “Ma non parliamone più, potrebbe capitare a ciascuno di noi in qualunque viaggio. Da quando quelli dell’Anek hanno dimezzato gli organici può succedere di tutto a ogni viaggio”, chiude il discorso un cameriere in giacca rossa incaricato dal comandante di portare lo spumante ai tavoli.
I controlli ad Ancona. Nemmeno il momento più delicato della traversata — il passaggio sul punto della tragedia — suggerisce pensieri luttuosi. È mattina già da un po’, quando secondo i calcoli dei passeggeri la SuperfastXII dovrebbe incrociare le acque tra l’Albania e la Puglia. I camionisti riemersi dai garage fanno colazione all’aperto e fumano la prima sigaretta del giorno, scaldati da un timido sole. Scrutando l’acqua considerano tra di loro che proprio qui, tre giorni fa, doveva essere l’inferno ma — si stupiscono — il mare e il vento si sono portati via tutto, hanno pulito il paesaggio, e la Norman Atlantic adesso è da qualche parte, altrove, a finire di bruciare per conto suo.
In realtà sono loro ad essere altrove: per evitare il maltempo ed eventuali altri contrattempi alla Compagnia, il capitano ha deciso di passare il più vicino possibile alla costa albanese e croata aggirando di una manciata di miglia il punto dove la Norman Atlantic ha preso fuoco. Così alla fine ci vogliono trenta ore di navigazione prima di vedere, a prua, l’Italia. E’ ormai scesa la sera quando la nave entra nel porto di Ancona. Polizia e Guardia Costiera controllano scrupolosamente tutti i camion. I clandestini scovati vengono riconsegnati al comandante della nave che li riporterà a Patrasso. Alla Abex.
Aveva ragione l’interprete afgano quando diceva che era il giorno sbagliato per provare a imbarcarsi. Ma aveva ragione anche quando diceva che presto anche questa tempesta passerà. E allora tutto tornerà come prima.
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