Redazione | No, non siamo tutti Charlie, come scrive perfettamente Cass Mudde su OpenDemocracy: prima di tutto perché non ne condividiamo l’ostinazione. Se ciascuna delle persone che ha manifestato in queste ore così vivo interesse per la libertà di espressione e di satira lo avesse fatto nei 364 rimanenti giorni dell’anno, probabilmente oggi non saremmo costretti a fronteggiare una vera e propria emergenza democratica, cui nessuna conversazione in rete, nessuna campagna di solidarietà via hashtag e nessuna condivisione delle vignette di Charlie Hebdo potrà mai sopperire. Perché è bene ricordarlo: è più semplice colpire bersagli isolati che un popolo intero che difende il suo diritto di sfottere Dio, se gli aggrada.
Dire #JeSuisCharlie è semplice. Invece opporsi ai pregiudizi più forti e giovani della nostra contemporaneità, molti dei quali riguardano l’Islam, costa fatica, a volte perfino punizione sociale e professionale. Stéphane Charbonnier si è messo in gioco, dicendo giustamente che non si possono incolpare delle vignette per l’operato di Al Qaeda; che è meglio rischiare la vita che autocensurarsi. E che non possiamo abbandonarci alla paura, perché cedere al terrore significa perdere la democrazia. Che straordinario rispetto dell’integrità morale del proprio mestiere e della propria umanità. Un rispetto che da solo costituisce la più grande sconfitta dei terroristi, che non possono capire e apprezzare; soprattutto, che non possono inserire nella propria visione del mondo, chiusa nei dogmi e nell’assolutismo.
E invece troppe volte in queste ore ho dovuto leggere le domande, i distinguo di chi ha pensato che tutto sommato quelle vignette erano troppo “forti”, eccessive. Troppo libere, in una parola, per chi vuole che le conversazioni – in rete e fuori – debbano essere “civili” o soffocare; e pace se ciò significa storicamente allinearsi agli interessi del potere costituito, come ricorda sempre Mudde nel passaggio più riuscito del suo già perfettamente riuscito argomentare. Rinunciare a una parte lecita dell’esprimersi. Farlo senza motivo se non per conformismo e, al fondo, servilismo. Quindi no, la satira non accetta definizioni: è “stupida e cattiva“, e si arroga il diritto di esserlo. E noi, accettandolo, abbiamo accettato di vivere in un mondo più libero.
Ora ci diciamo tutti difensori della libertà di espressione. Ma non lo siamo, non lo siete. Gli indicatori sugli omicidi di giornalisti nel mondo e sulla libertà in rete dicono da anni che il problema esiste e aumenta, e nessuno si è stracciato le vesti. Anzi, i governi – pur colti in mille scandali e omissioni e incertezze – continuano a reprimere, legiferare, chiedere “civiltà” con la scusa di una sicurezza che, si è visto, non sono assolutamente in grado di mantenere. E l’opinione pubblica guarda perlopiù con noia alle notizie sull’argomento.
Ma se le tecnologie non sono da sole le risposte, come stanno scoprendo gli Stati Uniti anche con le bodycam, spesso possono facilmente sembrarlo. Così non mi stupirebbe se da domani si cominciasse a parlare di più, non meno, sorveglianza e controllo; per garantire la nostra libertà, certo. La scusa, in fondo, è sempre la stessa.
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