Redazione | È uno dei pochi testimoni ancora vivi di una stagione ammantata di mito e di sangue, di una Sicilia di sessant’anni fa che intreccia mafia, servizi segreti, poteri, ricatti, complotti, morti accidentali travestite da delitti, delitti fatti passare per incidenti. Gli ingombranti ricordi di Frank Mannino, considerato da tutti luogotenente di Salvatore Giuliano, che oggi ha quasi novantadue anni e vive a Genova, sono racchiusi tutti in uno sguardo profondo ed attento mentre riavvolge quelle riminiscenze. Si ha subito l’impressione di avere a che fare con una che la sa lunga. Da anni, quasi ogni giorno, indossa giacca e cravatta e con modi gentili bussa alle porte come un piazzista che vende bontà: un paradosso per lui che nella prima vita è stato un bandito che incuteva terrore. Ha iniziato a leggere la Bibbia a ventiquattro anni sulle aspre montagne di Montelepre, alle spalle di Palermo, quando era uno dei picciotti della banda di Salvatore Giuliano, un pezzo di storia dell’Italia dei misteri. Ex stagnino e figlio di un carabiniere, si era “arruolato” con l’abnegazione e la dedizione di un soldato perché sognava l’autonomia della Sicilia dall’Italia tiranna e l’annessione agli Stati Uniti d’America. Frank Mannino, condannato all’ergastolo per la strage di Portella della Ginestra avvenuta il 1 Maggio 1947, ha sempre difeso Salvatore Giuliano e la banda intera affermando che a sparare sui manifestanti quel giorno “fu uno solo che aveva avuto esperienza di armi durante la guerra in Russia”. Mannino era amico di Giuliano “Eravamo bambini insieme a Montelepre. Scoprii dopo un po’ di tempo che Turi era colonnello dell’Elvis, l’esercito di volontari per la liberazione della Sicilia di cui facevo parte anche io”.
All’ansa il giorno della morte di Giuliano, Mannino disse: “Quel primo maggio a Portella della Ginestra “io non c’ero” ma il tribunale di Viterbo lo condannò a 2 ergastoli. “Io facevo parte del gruppo che, in seno alla banda, si occupava di sequestri – raccontò Mannino – e a Portella non ci andai. Ho preso parte solo a due conflitti a fuoco per fortuna senza morti. Poi dopo la Liberazione la mia fede mi ha convinto a dire tutto accollandomi anche un sequestro di persona che mi tornò in mente ascoltando un altro bandito”.
Franck Mannino nel 1952 fu così condannato a 302 anni di reclusione. In carcere ebbe modo di conoscere la Bibbia. Le autorità carcerarie di Procida chiesero la grazia per lui. La grazia fu infine concessa e il 28 dicembre 1978, fu scarcerato. Nove degli ultimi 29 anni di carcere Mannino – dunque – li scontò proprio nel carcere di Terra Murata. Sull’isola di Arturo Mannino ha lasciato amicizie e conoscenti e vi è tornato per un incontro con la locale congregazione dei testimoni di Geova. Ieri è ripartito alla volta di Genova, non prima di aver fatto un salto fuori al diroccato carcere e salutato gli amici. Uno su tutti il medico di allora del carcere il dott. Retaggio, qualche poliziotto e soprattutto qualche collega di camerata. Mannino accompagnato dal figlio, non vuole parlare della sua esperienza di vita che lo ha poi costretto al carcere ma ci tiene a ricordare un aneddoto molto significativo legato alla sue esperienza carceraria. “Era il giorno del precetto Pasquale e come ogni anno nel carcere veniva a celebrare la messa il vescovo dell’isola il cardinale di Napoli, all’epoca Corrado Ursi. Io da testimone di Geova mi disinteressai alla cosa, non volevo ascoltare la messa, ma il cappellano Don Michele “Barbaglio” mi invogliò. Così sedetti tra i banchi ed ascoltai la santa messa. A dire il vero la predica, il “sermone” del Arcivescovo trovarono anche la mi approvazione. Finita la messa tornai a fare i miei mestieri nel carcere, quando all’improvviso mi trovai di fronte il Cappellano ed il Cardinale. La cosa non fu casuale, Don Michele disse: “ Eminenza questa è una pecorella smarrita”, alludendo al fatto che io fossi dei testimoni di Geova. E il Cardinale Ursi mi chiese il perchè, al che io spiegai le ragioni della mia volontà dell’adesione alla congregazione di Geova. Ma visto che ero davanti ad un alto prelato chiesi se potevo porgere una domanda al Cardinale. Lui accondiscendette. E chiesi: “ Eminenza, se al suo posto in chiesa ci fosse stato a celebrare Gesù Cristo, avrebbe permesso comunque ai lati dell’altare la presenza di poliziotti con il mitra?”. Lui non mi rispose. Anzi rispose qualcosa di molto vago, non ricordo bene. Sta di fatto che l’anno successivo – anzi due anni dopo – quando ritornò lui ad ufficiare la santa messa per il precetto pasquale, ai lati dell’altare non c’erano più i due poliziotti con il mitra in mano”.