Michele Lubrano Lavadera | Molte persone afflitte dalla «febbre del gioco d’azzardo» riferiscono di provare la sensazione di vivere come all’interno di una «bolla», una sorta di mondo ovattato scandito dal gioco dove è possibile provare sensazioni di gioia, speranza, dolore e rabbia, mentre al di fuori tutto appare piatto e inutile. Ma a destare preoccupazione è il fatto che molti di loro non identificano il gioco come un problema, se non quando la situazione è ormai compromessa al punto da aver mandato a monte i risparmi e gli affetti di una vita intera.
«A livello clinico giungono spesso soltanto i casi estremi. Anche per questo è probabile che il fenomeno della patologia da gioco d’azzardo sia ampiamente sottostimato», avverte Laura Bellodi, Preside della Facoltà di Psicologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
E allora dimenticate i tempi delle partite a poker in cantine buie o bettole da quattro soldi. Stanzini lontani dal mondo in cui volavano imprecazioni e giravano scommesse clandestine. Nella ludodipendenza il vero senso del gioco, attraverso cui si può costruire e scoprire il Sè – quello che vuol dire libertà, creatività, apprendimento di regole e ruoli, sospendendo le conseguenze reali – viene completamente ribaltato per trasformare la cosiddetta “oasi della gioia” in una “gabbia del Sé”, fatta di schiavitù, ossessione, ripetitività. Numerosi studi hanno cercato di individuare i fattori di rischio che predispongono a diventare “giocatori d’azzardo impulsivi” o perfino “gioco-dipendenti”, ricorrendo a tre aspetti, generalmente ritenuti in interazione fra loro:
ASPETTI BIOLOGICI: relativi a fattori principalmente neurofisiologici, ancora non ben dimostrati, ossia allo squilibrio che si potrebbe determinare nel funzionamento del sistema di neurotrasmettitori cerebrali atti a produrre serotonina, una sostanza chimica cerebrale, responsabile di un equilibrio affettivo-comportamentale, che nei giocatori patologici scenderebbe sotto i livelli comuni rispetto alla media;
ASPETTI AMBIENTALI-EDUCATIVI: inerenti sia l’educazione ricevuta e quindi l’ambiente evolutivo caratterizzato da situazioni problematiche e da una tendenza a stimolare e ipervalorizzare le possibilità di felicità legate al possesso del denaro, sia la presenza di difficoltà economiche legate ad esempio allo stato di disoccupazione che sembra un particolare fattore di rischio per l’insorgenza della ludomania;
ASPETTI PSICOLOGICI: che talvolta sembrano più connessi alla presenza di tratti di personalità lussuriosa e avara di denaro, talvolta connessi al bisogno di riuscire a dimostrare un controllo sul fato e sul caso, come simbolo del controllo sul mondo che sfugge ad una regolarità.
I giochi che sembrano predisporre maggiormente al rischio sono quelli che offrono maggiore vicinanza spazio-temporale tra scommessa e premio, quali le slot-machines e i giochi da casinò, ma anche i videopoker e il Bingo. Le fasce più a rischio sembrano invece, tra le donne, le casalinghe e le lavoratrici autonome dai quaranta ai cinquant’anni e, tra gli uomini, i disoccupati o i lavoratori autonomi che hanno un frequente contatto col denaro o con la vendita ed un’età intorno ai quarant’anni.
E lo stato che fa in tutto ciò? Diranno, come già dicevano i governi precedenti, che coi soldi del gioco che Cavour definiva «una tassa sugli imbecilli», si possono fare cose buone. Che più «bische legali» sono sul territorio meno spazio si lascia alle mafie. Che senza lo stato biscazziere «irromperebbero gli inglesi rivendicando la libera concorrenza europea». E via così… Ma ci credono davvero? Davvero?
Don Ciotti che con Libera denuncia da anni l’andazzo dice di no: «È inaccettabile che di qua si denunci la crescita delle ludopatie e di là si continui a spingere il gioco. È una ipocrisia. E lo sanno». Il primo a dargli ragione, per paradosso, è il sito del ministero della Salute dove si legge, testuale: «La ludopatia non è solo un fenomeno sociale, ma è una vera e propria malattia, che rende incapaci di resistere all’impulso di giocare d’azzardo o fare scommesse». Di più: «La ludopatia può portare a rovesci finanziari, alla compromissione dei rapporti e al divorzio, alla perdita del lavoro, allo sviluppo di dipendenza da droghe o da alcol fino al suicidio».
Oggi, di questo e di tanto altro se ne discuterà presso la Sala Consiliare del Comune, l’Équipe dei Gruppi Famiglia ha infatti promosso un incontro sul tema: “Gioco d’azzardo: non è un gioco, ma una nuova dipendenza”. Interverranno lo psicologo Carmine Papilio, direttore Sert Asl Napoli 3 Sud, e un ex giocatore, che racconterà la sua esperienza. Moderatore, don Lello Ponticelli.
Il momento di confronto è stato organizzato per portare l’attenzione della comunità su una pratica apparentemente innocua che viene talvolta definita “dipendenza senza sostanza”. Il Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) è stato riconosciuto come patologia nel 1980 dall’Associazione degli Psichiatri Americani; ed è classificato nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM IV) come “un disturbo del controllo degli impulsi”.
Tuttavia, anche quando il gioco d’azzardo non si trasforma in una vera e propria malattia, rimane un grave e deleterio comportamento che rischia di destabilizzare l’equilibrio del giocatore e dei suoi familiari. Sono invitati genitori, docenti, rappresentanti delle istituzioni, operatori socio-sanitari e operatori pastorali.
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