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Raccontare il presente, capire il futuro

PROCIDA RACCONTA: IN ANTEPRIMA I COINVOLGENTI SEI RACCONTI SCRITTI A PROCIDA, RICCHI DI SUGGESTIONE E FASCINO

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Giu 25, 2016

Redazione | Intenso, vivo e soprattutto molto ben riuscito. Si è conclusa giorni fa – nella splendida cornice di Santa Margherita – la seconda edizione di  “Procida racconta: sei autori in cerca di personaggio”. L’edizione, arricchita da un fuori programma offerto dalla RAI, ha registrato un notevole successo anche fuori dall’isola.

L’iniziativa culturale  – ricordiamolo  – voluta e sostenuta con passione ed impegno da Andrea Palombi, direttore della libreria Nutrimenti, si inquadra  nel più ampio progetto del “Premio Isola di Arturo Elsa Morante”.  L’idea originale e senza precedenti nel panorama italiano, già dallo scorso anno ha segnato un percorso di inserimento nel tessuto antropologico dell’isola,  valorizzandone le peculiarità e la  disponibilità a farsi dono attraverso la penna di artisti della parola. Questi in anteprima gli incipit:

 Schegge di memoria, di Errico Buonanno

Nell’incanto di Procida, alle ore otto della prima sera, i miei colleghi hanno tutti una storia. E io no. Silvia ha un fabbro, Francesco un capitano. Io no.

Hanno già tutti un appuntamento preciso, intorno alle dieci, la mattina seguente. Io solo un fantasma, di cui si vocifera, chissà. “Esiste un’anziana, centenaria: votò per il re, settant’anni fa!”. “Perfetto! Perfetto! Il referendum! Attuale, romantico… Quando la posso incontrare?”. Questo è difficile da dire, perché la signora è un po’ impegnata. “Impegnata? A cent’anni?”.

“Centouno”. Ha gli impegni familiari. Per questo trascorro il giorno dopo vagando per Procida e sognando. Le storie, le vite che dovremmo cercare, dovrebbero tutte dimostrare, in sostanza, che lo scrittore sa osservare e capire. Che lo scrittore è un cacciatore, che pesca così, a piene mani, dal mondo, e che quel mondo, anche un’isola, è una riserva di narrazioni, di trame, che si offrono a chi le sa ascoltare.

Rosaria e Pasquale, di Massimo Gramellini

Delle favole, fin da bambino, mi ha sempre ossessionato l’ultima riga. “E vissero felici e contenti”. Il classico brodino rassicurante cucinato dai grandi per farti addormentare tranquillo. “Ma al principe e alla principessa non succede più niente?”, chiedevo deluso a mia madre. E lei rispondeva: “Succede la vita”.

Io alla vita ho sempre preferito le favole e sono sbarcato sull’isola di Procida con l’idea di incontrare una coppia a lunga conservazione che mi rivelasse il segreto dell’ultima riga. Certi segreti si conservano meglio su un’isola.

Alla vigilia delle nozze d’oro, Rosaria e Pasquale hanno accettato di raccontare, l’uno di nascosto dall’altra, il loro matrimonio infinito. Doveva essere facile giurarsi amore eterno nei secoli passati, quando tra epidemie e guerre la vita durava in media trent’anni. Adesso quel giuramento andrebbe riscritto così: sei disposto a giacere nello stesso letto e a dividere i pasti e gli spazi con la stessa persona per almeno mezzo secolo?

Il dottore, di Nicola La gioia

Due sono le cose che un uomo deve vedere per poter dire di conoscere il mondo – la guerra e la prigione. E io ho visto tutte e due.

Mi chiamo Giacomo Retaggio e quando la guerra non c’è stata a Procida avevo cinque anni. La guerra c’è stata a Napoli e ovviamente c’è stata a Montecassino. A Procida c’era la contraerea ma non c’è stato mai un combattimento, mai un bombardamento. La guerra qui non c’era… ma si sentiva. Si sentiva ad esempio la fame. Mia madre aveva un orto ed è stato grazie alle patate, grazie alle zucchine, grazie ai limoni di quell’orto se siamo sopravvissuti fino al 1945. Un po’ ne mangiavamo (e Dio sa se all’epoca l’appetito era il nostro compagno di giochi), un po’ lo barattavamo con quello che ci portavano i pescatori. Dite che il baratto è una forma di regressione? Ma a noi ha evitato di regredire fino allo stato inorganico, ci ha salvato la vita.

L’imbuto, di Silvia Nucini

Mi chiamo Calabrese Domenico, detto Mimì che così fate prima. Ho settantanove anni, che sono 948 mesi e anche qualcosa in più: lo so perché prima mi è venuto da fare il calcolo e mi sono segnato il numero col gesso sul bancone di lavoro. Vi ho detto che mi chiamano Mimì? E di John Wayne vi ho detto? Mi dicevano anche così, da giovane, perché ero bello. Un po’ mi vergogno a dirlo, adesso che sono un vecchio. Mi vergognavo pure allora, se è per questo, ma un poco meno, che le ragazze mi piacevano e io piacevo a loro. Gaetana me ne ha dovuta fare di corte, ma poi ci siamo sposati qui all’isola.

Sull’isola io non ci sono nato, vengo da Matera. Ma mio padre era maresciallo e l’hanno trasferito qui, al carcere. Io avevo sette anni e l’isola mi ha fatto scordare tutto quello che è successo prima di lei, così è come se a Procida ci fossi nato per davvero.

Vita violenta di un buon uomo, di Francesco Pacifico

Mio padre lavorava le terre del nonno con otto uomini. Passavo i giorni seguendoli.

A dicembre si uccideva il maiale. Le donne preparavano l’acqua bollente e gli uomini spingevano il maiale dal porcile allo spiazzo della casa colonica.

Il maiale capiva e gridava, terrorizzando i bambini.

Gli si dava una coltellata al cuore: un rivolo di sangue gli scendeva dal collo e veniva raccolto in un catino di creta, dove le donne lo rimestavano perché non si raggrumasse. Poi veniva messo sul fuoco, unito al cioccolato, per fare il sanguinaccio.

Il maiale ucciso veniva issato per le gambe posteriori a due scale incrociate e le donne ci versavano acqua bollente. Con i coltelli si puliva la cotenna, si squarciavano le viscere: l’ammasso di organi interni si rovesciava all’esterno, coloratissimo. Si avvolgevano gli organi in un lenzuolo di lino.

Quando fu decisa una gabella per ogni maiale ucciso, gli si legava il muso perché il suo stridio non ci facesse scoprire. Capitava che i vicini, gelosi, andassero a dirlo.

Se questa storia potesse raccontarla un luogo, di Simona Sparaco

Se questa storia potesse raccontarla un luogo, il narratore sarebbe un piccolo ospedale. L’ospedale dell’isola di Procida.

Vent’anni fa era un pronto soccorso in una palazzina a due piani bianca e verde acqua, quel verde che può riservare il mare in alcuni tratti dell’isola, quando a Pozzo Vecchio o nei fondali rocciosi sotto il ponte di Vivara il sole si specchia sulle onde e accende tutti quanti i colori.

Prima di diventare un ospedale più attrezzato, che prende il nome da Gaetanina Scotto, l’infermiera che perse la vita durante un impavido soccorso in elicottero, e prima di trasferirsi in via De G

asperi, in una palazzina tutta gialla come il colore dei limoni, quest’ospedale girovago e precario, questo narratore immaginario, salvò la vita di una bambina. Il nome di quella bambina è Mara, anche se nell’isola la chiamano quasi tutti Maruzze’. E questa è la sua storia.

 

 

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