Pasquale Lubrano | A sorpresa, è riemerso dal passato un problema amministrativo che si è snodato per oltre cinquant’anni e sembrava giunto, in un modo o nell’altro, al capolinea nel 2005.
Si tratta della vicenda legata alla concessione in enfiteusi dell’antico cenobio e della torre di avvistamento con bosco circostante, siti a Santa Margherita alla Chiaiolella, poi conclusasi col definitivo passaggio come proprietà privata agli attuali possessori.
A riesumare ragioni e torti è stato l’inizio dei lavori di ristrutturazione del cenobio, dopo che per la torre e parte di esso si era provveduto nella seconda metà degli anni ‘50 dello scorso secolo ed opere di manutenzione saranno state certamente eseguite in seguito. I lavori in corso sono eseguiti con concessione edilizia rilasciata dal Comune di Procida a seguito dei pareri positivi degli organismi previsti dalla legge e con la consueta salvaguardia “salvo diritti di terzi”. Secondo i tecnici sono state rispettate le volumetrie esistenti e, a quanto è dato sapere, non sono stati intaccati diritti di proprietari viciniori se non eventuali rispettabili diritti di cittadini impegnati nella tutela di beni storici e paesaggistici, a valutare i quali hanno provveduto gli organismi preposti, salvo contraria dimostrazione. D’altro canto è noto che a Procida la più importante approvazione la danno i vicini di casa, al di là dei diritti privati. Il contrasto viene sviluppato in proprio o ci si affida al “conto terzi”.
Da quanto premesso, si potrebbe dedurre che io sia favorevole all’intervento edilizio in corso.
Si dà il caso che il mio impegno civico, da cittadino o per decenni operante nelle pubbliche istituzioni, mi ha visto operare dal 1960 al 2005 affinché quel complesso demaniale non diventasse proprietà privata. Anzi salvo errore, potrei essere l’unico sopravvissuto tra coloro che operarono per impedirlo quando a fine anni ’50 venne creata la situazione di danno al demanio pubblico e agli usi civici. In vero, lungo il corso di tanti decenni non ricordo nessun apporto da parte di qualche autorevole contestatore di recente conio pur se operanti nell’agone politico e amministrativo da lunga data.
Sarei felicissimo se tecnici del settore o operatori di giustizia fossero a conoscenza di modalità giuridiche per recuperare al pubblico demanio il monumento ed il bosco o di motivazioni normative per invalidare la rilasciata concessione edilizia. Altrimenti sarebbe troppo semplice il sostenere: “Io non sono d’accordo, trovate voi le motivazioni per farlo”.
Per pura coincidenza, nel trattare la storia della nostra isola ho pubblicato gli eventi amministrativi degli anni ’50 nei numeri recenti del locale periodico “Procida Oggi” con circostanziati dati, anche in merito alla vicenda “S Margherita vecchia”, da cui si evincono precise responsabilità di coloro che crearono le condizioni per una situazione che non si riuscì a dipanare nei successivi cinque decenni. Il Comune di Procida cercava già nei decenni precedenti chi ristrutturasse gli immobili e li destinasse a scopi di ricettività turistica.
Riassumo gli eventi. Nel 1923 il Comune di Procida cedeva quella parte di S. Margherita in enfiteusi perpetua al Cav Mariosa Luigi, dichiarato decaduto nel 1931 perché fallito e fuggito all’estero. Nel 1951 il C.C. approvava l’intesa raggiunta tra l’Amministrazione, (sindaco Antonio Ambrosino) ed il giornalista Antonio Lezza, per la concessione in enfiteusi del bosco con torre vedetta e del cenobio, prima novennale e poi perpetua. Oltre al canone, il Lezza si impegnava a ristrutturare il complesso per attività turistiche e promozionali (come per la precedente concessione a Mariosa) ed iniziative promozionali varie. Il Lezza eseguì la ristrutturazione della torre ma non completò quella dell’intero complesso. L’1.2.59 egli invitò il Comune ad esercitare il diritto di prelazione ma non avendo ottenuto risposta nei termini di legge, lo ritenne rinunziatario. Anzi il Comune rilasciava il 15.10.60 attestato che tutti gli impegni contenuti nella concessione erano stati mantenuti, pur se ciò non era vero, cosicché il giorno 28 successivo Lezza trasferiva i beni alla soc. Zerma.
Di fronte alle proteste dei partiti di opposizioni, capeggiati dal Cap Almerindo Manzo (PSDI) che evidenziavano come per legge i beni demaniali e gravati da “uso civico” non possono essere alienati ed il diritto é imprescrittibile, il sindaco Guido Cennamo (DC) il 18.9.61 comunicava a Lezza la estinzione del diritto di enfiteusi perpetua. Era tardi e Lezza rispondeva comunicando il trasferimento del diritto di enfiteusi alla Zerma. Il Comune dava inizio all’azione giudiziaria per la risoluzione del contratto di enfiteusi per inadempienza ai patti contrattuali, ragioni contraddette dalla certificazione in precedenza rilasciata.
Il Commissario alla liquidazione degli usi civici, su denunzia dei partiti di opposizione che constavano l’incerta conduzione dell’azione legale, convocava in data 20 maggio 1967 il sindaco che andò all’incontro insieme al vice Di Liello. Successivamente li diffidò a revocare la vendita abusiva a Lezza Antonio e Zerilli Marimò.
Il 31.1.68 la GM avviava perciò l’azione di reintegra davanti all’autorità giudiziaria e nominava gli avvocati Stefano e Pasquale Riccio, sia in sede giudiziaria. sia presso il Commissariato per motivi di inalienabilità, mai fino ad allora contestati, chissà per quali motivi.
La vertenza, anche per sistematici banali errori procedurali iniziali dei due avvocati democristiani, si è protratta poi fino agli inizi del 2000 con ripetuti tentativi nei decenni da parte degli eredi di Zerilli Marimò di pagare qualcosa al Comune e tenersi la proprietà. Tentativi sempre vanificati dalla presa di posizione, in particolare, dei socialisti. Quando gli attuali eredi affermano che tutti i sindaci erano propensi alla trattativa raccontano la situazione in modo inesatto. Forse si riferiscono a tutti i sindaci DC, perché i due sindaci socialisti (Vittorio Parascandola ed Enzo Esposito) mai hanno pensato a chiudere in tal modo la vicenda. La transazione si concretizzò nel 2005 (sindaco Luigi Muro).
L’intesa tra gli eredi Zerilli Marimò ed il Comune per porre fine alla vertenza veniva ratificata dal Commissario alla liquidazione degli usi civici il 23 giugno 2005. Ai primi veniva riconosciuta la proprietà del cenobio, della torre d’avvistamento ed il bosco (7.955 mq); in cambio a favore del Comune venivano versati Euro 129.114,22 (l’equivalente di 250 milioni di Lire) per canoni enfiteutici arretrati non versati, veniva liberato dal pagamento di ogni spesa processuale, fissato il permesso di accesso al bosco per i cittadini quattro volte l’anno con eventuali danni a suo carico, riconosciuta una zona di 26,43 are sottostante il costone franoso, a livello di banchina, su cui però gli eredi Zerilli Marimò si riservavano in perpetuo di poter utilizzare l’area per due barche. L’ipotesi transattiva dell’Amministrazione era stata approvata dai consiglieri di maggioranza, subordinandola al parere di un legale. La minoranza di “Unione per Procida” espresse forte contrarietà in coerenza con oltre quarant’anni d’impegno per il recupero dei beni alla collettività di quanti avevano cercato di ottenerlo.
L’Amministrazione scelse come legale consulente l’avv. Limongelli che fece proprie le ragioni di chi negli anni aveva perorato la transazione: incertezza sull’esito della vertenza giudiziaria, se negativo si doveva fronteggiare pesanti costi processuali, se positivo il dover corrispondere il corrispettivo per le migliorie apportate. Fino ad allora il parere del Commissario per la liquidazione degli usi civici e dei periti nominati per gli accertamenti era avverso alla transazione ma poi, come detto, la ratificò. Prevalse da parte del Comune la preoccupazione dell’insostenibilità dei costi qualunque fosse stata l’esito giudiziario.
Ho avuto modo di leggere recenti scritti degli eredi Zerilli Marimò, con ricostruzioni storiche sul diritto originario di proprietà per mettere in dubbio la legittimità da parte del Comune di concessione dell’enfiteusi e della stessa esistenza di un diritto di uso civico. Non è chiaro se fosse la principale argomentazione a sostegno delle proprie ragioni. Nel caso si sarebbe trattato di ragioni storicamente risibili, a meno che non abbiamo esibito documenti non noti e nemmeno citati nell’attuale confronto. Tutto sembra destinato ad un esercizio accademico di tardiva polemica. Se poi i tecnici impegnati nella contestazione hanno in serbo conoscenze che a tanti sfuggono, le rendano pubbliche in modo non generico. Coloro che si sono impegnati per il recupero dei beni storici ne sarebbero felicissimi.