Sebastiano Cultrera | “Il carcere incombe su Procida come una cappa di piombo”. Risuonano ancora nella mia testa le parole del Prof Arcangelo Esposito, un grande personaggio dell’isola che fu. Non ricordo più bene in che anno, ma accadde in uno dei tanti convegni sul trasferimento del penitenziario, credo alla fine degli anni 70. Ero lì come giovane attivista e, con altri amici, immaginavamo un fiorente futuro dell’isola, rimosso il carcere.
Nel mio intimo, tuttavia, ho sempre pensato che il penitenziario di Procida fosse un luogo di ricchezza, economica ed umana, che non avrebbe, di per sé, costituito ostacolo alcuno alla crescita turistica ed economica dell’isola. Anche perché lo avevo scoperto, coi 18 anni compiuti e col “diritto” ad utilizzare la FIAT 850 di mio padre con le (rare) turiste single che capitavano in albergo (preferibilmente straniere o del Nord, con costumi che speravamo meno castigati) cui facevo da accompagnatore in un tour, spontaneo e gratuito, dell’isola. Il mio obiettivo, non sempre centrato, era di rubare qualche bacio, ed avevo capito che, a loro, quel luogo piaceva così. Ed affascinava.
Certo l’intenzione di Ferdinando di Borbone fu, probabilmente, una intenzione punitiva. Egli che amava la plebe dei vicoli napoletani, già non aveva amato Procida quanto il padre Carlo (che promosse invece l’isola a primo sito reale, ristrutturando il Castello in Palazzo Reale). Ferdinando trasformò, infatti, poco dopo il suo secondo ritorno al Trono, il Palazzo Reale di Procida in “bivacco di manipoli”, con l’istituzione di una Scuola Militare, con annesse celle di sicurezza. Sarà Ferdinando II, nel 1830, su questa scia, a trasformare la struttura in Penitenziario, con le usanze dell’epoca (e con la cultura incerta dei Borboni dell’epoca, che alternavano ferocia a politiche liberali).
Procida era già “scaduta” nei cuori dei Borbone nel 1799, quando si era rivelata uno dei “covi” giacobini, o in ogni modo filofrancesi, più avanzati e strutturati del Regno. Un dato su tutti: Marcello Scotti (avo del direttore Eugenio Scalfari) fu uno del leader (e membro della Giunta) della Repubblica Napoletana.
E tremenda fu la reazione dei Borbone: con intento esemplare furono giustiziati ben 13 procidani.
Ma la punizione e la fatica, per i militari e i prigionieri che vennero, nei circa 150 anni di esercizio del carcere (prima borbonico, poi del Regno e poi ancora della Repubblica italiana) fu sempre mitigata da una stupenda permanenza in uno dei luoghi più ameni del Golfo: l’acropoli di Terra Murata. E se le celle, talvolta erano buie e nascoste, non di rado avevano una finestra sul mare incantato del Golfo. I lavori “rieducativi” nel bagno penale erano particolarmente interessanti (e gratificanti) a partire dalla cura di uno dei più bei vigneti e tenimenti agricoli di tutta la penisola. Oltre ai lavori di ebanista e alla mitica produzione tessile. E chi lavorava aveva una discreta libertà di muoversi per l’acropoli e, pur controllato, di godere di quel panorama stupendo.
Il panorama antistante lo spaccio dava sul belvedere (dove ora sono situati i cannoni) e proprio lì, negli anni delle mie prime “visite guidate” scoprii il fascino (e il potere “magico”) del luogo. Facevo lo spaccone per stupire la donzella di turno con la frase “Adesso ti mostro il panorama più bello del mondo”. Poi conducevo la incredula interlocutrice verso il muretto con lo sguardo alla Corricella. La sua espressione cambiava, si emozionava e quell’emozione faceva cadere le distanze tra di noi: per un benevole viatico per l’esito del resto della passeggiata.
Ma la “Cappa di piombo” rimaneva. Dal punto di vista mediatico, e soprattutto rispetto alle esigenze del turismo di massa di quegli anni, alla ricerca di nuove mete per una borghesia che cercava nelle vacanze quella comodità e quei simboli del nuovo status economico (la piscina, le strutture moderne sul mare, gli ascensori panoramici, i primi villaggi turistici superaccessoriati). Rispetto a tutto ciò Procida era out (e forse possiamo dire meno male) e il Carcere sembrava l’ostacolo decisivo allo sviluppo.
Poi nell’88 la svolta. Come già detto Il Kiodo (cioè l’amico Domenico Ambrosino) coniò: “Il Carcere da palla al piede a palla Gol”. E lo intendeva per lo sviluppo turistico, anche alla luce dei progetti e delle opportunità che sembravano fioccare da ogni parte per il riutilizzo della struttura. Poi, 25 anni dopo, l’acquisizione al Comune con un frettoloso e improbabile piano di valorizzazione sabotato, nei fatti, dai vincoli antieconomici imposti da polverosi burocrati. E siamo all’oggi.
Dovremmo, con onestà, riconoscere che si tratta di ripartire daccapo. O quasi.
Adesso, nella metà trascorsa di mandato amministrativo, l’amministrazione del “cambiamento” poco ha cambiato, almeno nel destino di questi luoghi. Continua a prevalere l’abbandono. Con qualche lodevole iniziativa legata a visite guidate ed happening: tutti interessanti (e qualcuno molto interessante come il pranzo dei Borboni); ma tutti finalizzati, di fatto, ad evidenziare delle ROVINE, che corrono il rischio di rimanere tali in assenza di serie ed efficaci iniziative di rifunzionalizzazione e di recupero degli spazi e degli edifici. L’idea, poi, di “spingere” culturalmente il consumo più facile, cioè la visita guidata all’ex carcere sarà magari suggestiva (e spero redditizia), ma confina la lettura di quei luoghi ad una funzione ( LA PRIGIONE) che ha ricoperto per soltanto un terzo la sua storia (in soldoni un secolo e mezzo circa di carcere per circa 4 secoli e mezzo di vita di quegli edifici).
Relegando tutto il resto, cioè TRE SECOLI DI STORIA E DI VITA, a corollario. E il resto è la Storia dei D’Avalos, e dell’Arte e della Cultura napoletana (che era vivace anche sulla nostra isola), dell’armatoria legata ai signori delle varie epoche, dell’intimo rapporto con la vicina Abbazia e con la devozione di San Michele, della magnificenza del Palazzo Reale nato per l’amore di Carlo III per Procida. E poi la Repubblica Napoletana, gli Scialoja e il Regno d’Italia; e il carcere certo, con le sue storie, ma anche con il suo legame indissolubile con l’isola. E i segni che tutto ciò che sono rimasti nel corpo sociale e strutturale dell’isola e, in particolar modo, nella parte dell’isola più significativa: cioè il centro storico e Terra murata.
Il mio appello, quindi, è di fare, finalmente, tesoro del passato per una prospettiva aperta, produttiva e di reale recupero (magari con il contributo di idee a livello internazionale) della parte più importante della nostra isola.