Redazione – Gli scavi e le ricerche sull’isola di Vivara si svolgono quasi ininterrottamente da piú di quarant’anni. Le premesse a tali ricerche furono poste da un pioniere degli studi protostorici in Italia, Giorgio Buchner il quale condusse negli anni Trenta una serie di saggi sull’estrema punta nord dell’isola (la cosiddetta Punta Capitello), rinvenendo tracce di una presenza umana stabile nel corso dell’età del Bronzo.
A cominciare da quella scoperta l’isola di Vivara è divenuta uno dei capisaldi geografici per lo studio e la comprensione dei traffici marittimi che, nel corso del II millennio a.C., dovevano collegare le aree costiere e insulari italiane con le regioni del Peloponneso e gli ambienti insulari dell’Egeo. A piú di mezzo secolo da quelle prime scoperte, sappiamo che i contatti fra mondo grecoegeo e Occidente mediterraneo furono intensi e regolari già dalla metà del XVII secolo a.C. e continuarono in forma articolata fino e oltre il XII secolo, quando le formazioni politico-territoriali micenee, continentali e insulari, collassarono, lasciando spazio a nuovi assetti politici, che, nel tempo, condussero alla formazione delle poleis greche.
Nell’ambito di tali contatti, primariamente connessi all’acquisizione di metalli (rame e stagno), si innescò un processo di circolazione di beni di prestigio in forma di prodotti finiti (armi, gioielli, oli profumati e sostanze speziate) e materie prime di rare (come l’ambra, che proveniva dalle aree nord-europee attraverso una catena di siti intermediari dove si procedeva già a una sua parziale lavorazione). Nella seconda metà del II millennio a.C., tale sviluppo di interconnesione transmediterranea dette vita a un vero e proprio fenomeno di «globalizzazione » delle culture che si affacciavano sul Mediterraneo, dalle coste levantine fino a quelle della Spagna sud-occidentale, portando alla nascita in tutto il bacino di gruppi specializzati nella navigazione, nel commercio sulla breve e lunga distanza; abili mercanti e artigiani da un lato, che spesso operavano per conto di città e formazioni territoriali rilevanti, ma al contempo anche mercenari al servizio (o, in alternativa, pirati a danno) delle potenze dell’epoca.
Gli scavi e le ricerche di terra e subacquee a Vivara hanno aperto un nuovo orizzonte di conoscenza sugli inizi di questo lungo fenomeno, accertando la presenza stabile sulle ceramiche sull’isola di un insediamento capannicolo già dagli inizi del XVII secolo a.C.
Al di là delle indagini sull’assetto territoriale, che hanno visto la stretta collaborazione di archeologi di terra e subacquei con geologi, topografi e tecnici specializzati nelle riprese 3D e nel monitoraggio degli ambienti emersi e sommersi, lo studio dei reperti restituiti dagli scavi ha permesso di ricostruire i collegamenti marittimi che legavano l’isola con diverse regioni del Mediterraneo
Un aspetto di particolare interesse, che trascende i semplici rapporti di carattere economico-acquisitivo, è rappresentato dagli elementi che, come sopra si ricordava, possono riferirsi, se non a fenomeni di acculturazione diretta (che si affermarono interamente fra Oriente e Occidente mediterraneo solo a partire dal XIV secolo a.C.), quantomeno al trasferimento di usi, tecniche e nuove modalità di produzione.
Gli scavi di Vivara hanno fornito in questo senso spunti che solo ora, ad alcuni decenni dall’inizio della ricerca, cominciano a fornire i tasselli di un puzzle ancora lungi dall’essere veramente completo. Come si è già accennato, alcuni elementi sono, pertinenti alla sfera delle attività metallurgiche; a tal proposito è a ricordare il rinvenimento di un frammento di forma di fusione riferibili con certezza a una parte di spada micenea del tipo in uso in Grecia dal XV secolo a.C.. Dobbiamo forse pensare ai primi tentativi di produzione locale (che circa un secolo e mezzo dopo darà vita in varie aree dell’Italia meridionale a una vera e propria produzione italo- micenea) sotto lo stimolo e l’esistenza di artigiani egei al seguito degli equipaggi elladici che giungevano a Vivara?
Nel 1987 iniziarono le indagini del settore sud-occidentale dell’area archeologica della Punta d’Alaca. Qui le ricerche portarono all’individuazione di una nuova struttura abitativa, di forma rettangolare, dalle dimensioni ragguardevoli – 4 m circa di larghezza per oltre 6 di lunghezza –, incassata, con orientamento est-ovest del lato lungo, nel banco tufaceo adeguatamente terrazzato, simile a quella già messa in luce durante gli scavi del 1976-1981 collocata poco piú a nord-est.
Una novità apportata dagli scavi del 2017, sempre lavorando sugli strati di accumulo derivanti dal crollo di una capanna, è stata la scoperta di un secondo tipo di «tegole», decisamente piú grandi e forse non funzionali alla copertura del tetto, bensí a quella di una struttura circolare, forse un forno. In questo caso, però, le «tegole» recano tracce di fasce di colore biancastro che, in un punto di particolare buona conservazione, formavano una decorazione a rombi. Quanto di «intellettuale», assieme a questi elementi di piú spiccatamente «tecnologici», è transitato al seguito delle interconnessioni marittime mediterranee?
Un altro recentissimo ritrovamento, avvenuto durante una delle ultime campagne e che, a prima vista, ha destato un certo disorientamento. Sempre lavorando allo scavo di una capanna, sotto una serie di vasi mantenutisi interi, seppur schiacciati sotto il crollo delle strutture portanti, a diretto contatto con il pavimento, è venuto alla luce un osso di bovino lavorato, di forma oblunga, della lunghezza di 15 cm circa e alto tra i 3 e i 4 cm. La sua superficie, lucidata e di colore scuro, mostrava, già in situ, al momento della scoperta, una serie di segni incisi intenzionalmente, non riferibili quindi alla sua giacitura nel terreno o ad accidentali tracce di lavorazione dell’osso per fini alimentari. Il lavoro di pulitura, paziente ricomposizione (il manufatto risultava spaccato in tre punti e frammentato nella sua parte destra) e consolidamento si è protratto per alcune settimane. I dati desunti dai primi esami di laboratorio hanno confermato una serie di elementi preliminari molto interessanti: la superficie era stata sottoposta in antico a un’accurata politura e al probabile trattamento con una sostanza naturale (una resina e/o un ingobbio?), sí da farle assumere levigatezza e colorito nelle macrofoto effettuate con il SEM (microscopio a scansione elettronica) hanno confermato l’intenzionalità delle incisioni presenti sulla sua superficie, già rilevata al momento della scoperta.
La scelta materica del supporto, l’osso, conferisce all’oggetto una particolare attenzione. Sia che si pensi a un elemento importato, sia, come sembra molto piú credibile, si opti per la scelta di un qualcosa elaborato in loco, non mancavano certo la capacità, né la conoscenza per approntare un supporto in argilla sul quale tracciare i segni. Sebbene la pratica di utilizzare supporti in osso per registrazioni di carattere economico fosse diffusa in ambiente egiziano in una fase iniziale dello sviluppo del sistema scrittorio (anche se in Egitto la tavoletta d’argilla non si affermò mai come supporto scrittorio per eccellenza), e ricompaia anche nel Mediterraneo in ambiente fenicio, tutti i possibili confronti, sia di carattere storico (come in ambiente cinese, con gli oracle bones, o tardo-mesopotamico, per finire con l’ambiente nord-europeo legato alla scrittura runica), sia di carattere etno-archeologico (si pensi, per esempio, agli Ishango- bones dall’area congolese, o alle numerose attestazioni dal continente americano, sia nord- che mesoamericano) indicano nel supporto osseo un elemento connesso con pratiche scrittorie e parascrittorie di specifica rilevanza sociale. Molto piú difficile risulta la caratterizzazione «tipologica» dei segni, sia sotto il profilo della loro organizzazione sullo spazio offerto dal supporto, sia per quanto concerne le caratteristiche che improntano le forme. Con tutte le cautele del caso, potersi individuare un andamento lineare dei segni, e forse, quanto meno nella parte sinistra, la presenza di due registri.
La parte centrale è ancora molto «inquinata» da segni e concrezioni accidentali, mentre la destra è di difficile «lettura» a causa dello stato di conservazione. L’attenzione si è concentrata inizialmente sulla parte sinistra, dove si possono seguire con maggior sicurezza alcuni tracciati.
(M.Marrazzi archeo)