Roberto Boni – “Portato dalla mia mente distratta, mi ritrovai lungo la ripida salita dei Due Mori, che finisce sulla piazzetta del Monumento….da essa partivano, in tutto, quattro vie. Una era appunto la scarpata dei Due Mori”. Nel settimo capitolo de “L’isola di Arturo”, Elsa Morante quasi fotografa il quadrivio di piazza dei Martiri e la discesa di San Rocco. Il toponimo Due Mori attribuito a quest’ultima non è casuale: la scrittrice aveva certamente notato i due busti marmorei posti sul portone del civico 52 di via San Rocco.
Il marmo annerito dallo scadente stato di conservazione e i caratteri somatici “moreschi” di uno dei busti (peraltro bifronte) hanno verosimilmente indotto la Morante a reinventarsi la toponomastica di Semmarezio. Non si può inoltre escludere che una ulteriore suggestione le sia provenuta dai “Do Mori” della torre dell’orologio di piazza San Marco a Venezia. Va anche ricordato che qualche anno fa le due statue furono inserite in “Procida Portoni Aperti” e che in tale occasione il palazzo che le ospita fu ribattezzato “Casa dei Due Mori”.
Ma da dove provengono e cosa rappresentano le “erme” di via San Rocco? Per quanto ci risulta, tra i più autorevoli a menzionare i due busti marmorei sono stati Ferdinando Ferrajoli negli anni ’50 e Sergio Zazzera trenta anni più tardi: entrambi ne danno datazione e interpretazione fantasiose, perché partono dal presupposto che le due statue siano autoctone.
Probabilmente, invece, le nostre statue sono state collocate dove oggi le vediamo oltre un secolo fa, quando fu tompagnata l’arcata di ingresso al palazzotto. Il proprietario dell’epoca, con l’intento di nobilitare la magione, o di creare uno “sbarramento apotropaico” in analogia con i vari “mamozzi” presenti sull’isola, sistemò i due busti sull’architrave del portone e due teste d’angelo (purtroppo trafugate una trentina di anni fa) sulle due mensole laterali alla balconata del primo piano.
L’aspetto di giovane donna per la statua di destra (per chi osserva dalla strada) e di giovane nero per quella di sinistra, ha poi scatenato la fantasia degli abitanti della zona, che hanno alimentato leggende ricche di suggestione, ma del tutto prive di fondamento storico: le incursioni saracene susseguitesi dall’epoca ducale a quella vicereale o, in qualche caso, la transitoria convivenza dei cosiddetti saraceni con le nostre popolazioni in alcune zone dell’Italia meridionale, non sono sufficienti a giustificare favole su rapimenti e amori contrastati tra belle dame e dignitari ottomani…
Un recente restauro (novembre 2019), voluto dagli attuali comproprietari della Casa dei Due Mori, perdutamente innamorati dell’isola di Graziella, ha fornito nuovi elementi. La ripulitura e la stabilizzazione del marmo, che rischiava di sgretolarsi irrimediabilmente, da parte di restauratori di fiducia della Sopraintendenza, hanno rivelato particolari inediti su provenienza, datazione e significato delle opere.
Si tratta di busti in marmo pregiato (ma non di Carrara) di discreta fattura, risalenti presumibilmente al XVIII secolo, del genere che veniva utilizzato per decorare le terrazze o, in apposite nicchie, le facciate delle dimore nobiliari; va inoltre ricordato che, nei secoli passati, i busti bifronti, raffiguranti per lo più Giano (una divinità italico-romana che simboleggia il “passaggio”, sia in senso spaziale che temporale), venivano in genere collocati sui portali di ingresso alle proprietà. Una giovane donna “caucasica” che impersona forse una Virtù è il tema della statua di destra.
Quella di sinistra è, come già detto, bifronte: il volto che guarda a levante ha la fisionomia di un giovane moro imberbe con espressione apparentemente corrucciata, mentre dal restauro è emerso che il volto sul retro, purtroppo rovinato dal tempo e dagli agenti atmosferici, è quello di un vecchio con barba e baffi.
Si potrebbe pertanto ipotizzare che si tratti di una allegoria delle due età della vita, dove il giovane moro è angosciato dal pensiero della trasformazione che subirà con gli anni; del resto una analoga simbologia, col binomio giovane imberbe/vecchio barbuto, caratterizza la già citata torre dei Do Mori a Venezia e alcune rappresentazioni di Giano o di altre divinità ancora più arcaiche.
Ci auguriamo che questo piccolo contributo possa essere uno sprone per salvare dall’incuria e dal degrado le tante altre bellezze della nostra isola. Nell’attesa di una improbabile azione … demiurgica, spetta anche a noi cittadini salvare il salvabile!