Gino Finelli – Vi racconterò una storia. E’ la storia di un ragazzo di nome Arturo che abitava una piccola isola del mediterraneo e che guardava fin d piccolo le barche che si allontanavano dal suo scoglio immaginando cosa ci fosse dall’altra parte e desiderando salire su una di quelle barche per navigare e scoprire il mondo.
Arturo, al chiarore del giorno quando il sole si presenta agli occhi con la sua luce accecante e il suo tepore, andava sulla spiaggia vicino la sua casa e si tuffava in quell’acqua cristallina guardando i fondali, la prateria di poseidonia e dentro di essa la vita affascinante con pesci di ogni tipo e si avvicinava alla montagna che degradava verso il mare a cercare piccole insenature che nascondevano prede preziose. Di tanto in tanto risaliva con qualche pesce pescato senza strumenti, spesso con le sole mani, o con un secchio pieno di cozze, taratufi e piccole vongole. Amava il suo mare, ma guardava sempre lontano quelle barche che si allontanavano e la gente che vi saliva sperando sempre di essere uno di quei passeggeri.
Come tutti i ragazzi anche Arturo studiava per imparare l’arte della navigazione ed era anche uno studente diligente e particolarmente dotato. Giunse il tempo del suo distacco dalla sua isola. “Aveva gli occhi tristi guardando diritto verso nord pensando a quando avrebbe detto tra qualche giorno tornerò.” Aveva lasciata la sua terra e anche un piccolo ed iniziale amore. Arturo sapeva che quando sarebbe tornato, dopo un viaggio probabilmente avventuroso, avrebbe trovato la sua Procida avvolta dalla luce e dai suoi colori e da quel profumo di agrumi che riempivano l’aria. Ma Arturo voleva conoscere il mondo, le altre genti, le loro abitudini, un nuovo linguaggio. Nella sua fervida immaginazione pensava di poter portare sul suo scoglio il grande bagaglio di esperienze e soprattutto quella voglia di dare un contributo di rinnovamento e di sviluppo. Quando sbarcava nei porti si avventurava nelle città per imparare e conoscere e, nelle lunghe ore di navigazione, leggeva la storia della sua terra paragonandola spesso con le altre, ma soprattutto imparando ad apprezzarla, ma anche a sviluppare uno spirito critico rispetto alle consuetudini, abitudini, modi di pensare.
Divenne colto, imparò le lingue, studiò la storia e, finalmente quando sbarcò sulla sua terra, il suo sguardo non fu quello dell’ammirazione passiva che si immerge nei ricordi, ma quello di uno scrutatore attento e rigoroso di quanto era e stava accadendo, di quello sviluppo incontrollato e senza regole, di quella gente che forse non aveva come lui imparato e studiata quella storia di bellezza e di ricchezza culturale, che erano state la ragione della crescita nei secoli di un piccolissimo territorio bagnato dal mare.
Girò per le strade e le vide affumicate dallo smog di auto e moto, senza nessuna possibilità di passeggiare e godere le meraviglie di palazzi storici e di lussureggianti giardini. Andò sulle spiagge e le vide sporche, mal tenute, notò che anche i lidi erano poco curati e non in linea con la bellezza del luogo. Si avventurò alla Corricella e la trovò invasa da ristoranti con un odore pungente di frittura, depredata della sua storia e del suo fascino. Passeggiò sul lungomare della Chiaiolella gettando lo sguardo a quella spiaggia che quasi non c’era più. Trovò la sua terra invasa, violentata, offesa da quello sviluppo insostenibile e incontrollato, frutto certo di un mancato rispetto di regole e leggi, ma anche espressione di un permissivismo anarchico dettato da quella politica che avrebbe dovuto e potuto indicare un percorso e progettare una sostenibilità di crescita.
Arturo pensò che era tempo di raccontare, spiegare e infine proporre idee di rinnovamento nuove e si avventurò sulla strada dello scontro con la sua gente che lo vedeva come un disturbatore di quelle piccole e malsane libertà che erano tanto radicate da divenire una insanabile malattia. Ma non si arrese e tenace perseverò nel tentativo di insegnare ad amare e custodire la propria terra, nel tentativo di far comprendere che gli scempi che l’uomo compie, alla fine si ritorcono inevitabilmente contro loro stessi, che il mare quello che da anni era la loro risorsa, avrebbe finito con il diventare un loro problema.
Ma soprattutto cercò di far comprendere che non era vero che l’isola era dei procidani perché quando si possiede qualcosa si prova un sentimento che non è solo proprietà, ma che è di amore, dedizione e cura del proprio territorio. Non amavano dunque la loro Isola, o erano talmente presi dalla frettolosità ed avidità della vita da non riuscire a comprendere i danni che stavano producendo?
Non si azzardò a dare una risposta, d’altronde non avrebbe potuto farlo, ma sapeva che quello che non avrebbero fatto gli abitanti del posto, lo avrebbe inevitabilmente fatto la natura che si sarebbe riappropriata di quello che gli era stato tolto, ripristinando l’equilibrio e, con esso forse un nuovo corso della storia.
Partì, ebbe notizie e decise di non ritornare per non assistere alla decadenza di quel posto che nella sua anima era lo scrigno delle sue infinite emozioni. Ma la voglia di rivedere la sua terra fu così forte che alla fine prevalse e approdò di nuovo nella sua Isola con la certezza che avrebbe cambiato molte cose determinando nella popolazione una coscienza nuova tesa alla salvaguardia e preservazione di una terra nata per soddisfare i sensi. Riuscì ad ottenere un consenso, era la novità, l’uomo giusto che avrebbe iniziato un nuovo corso per uno sviluppo sostenibile. Avrebbe educato al rispetto delle regole le nuove generazioni e trasformata la coscienza sociale insegnando, finalmente, una consapevolezza ambientale.
Si scontrò con il potere locale e cercò nel suo piccolo di insegnare qualcosa a chi non voleva imparare. Tentò di sollecitare quella dialettica costruttiva fondata sulla conoscenza ed esperienza. Ma trovò difronte sempre una porta chiusa, quella della indifferenza e a finanche del disprezzo. Trovò la strada sbarrata proprio da chi avrebbe dovuta aprirla, e si arrese, scoraggiato dalla protervia e dall’arroganza di chi lo aveva fatto sognare in un progetto di crescita e sviluppo.
Guardando verso nord pensò che anche lui, come gli altri che aveva sempre biasimato, era inciampato nello stesso tragico errore e cioè credersi diverso, migliore, capace. E pensò che non c’è virtù così grande che possa sconfiggere la tentazione di credersi insostituibile ed unico.
Così Arturo partì di nuovo e ritornò al suo lavoro lasciando l’Isola. Vi avrebbe fatto ritorno un giorno e pensò alla poesia di Foscolo, immaginando al posto del fratello Giovanni, la sua terra e la trasformò con le sue parole e la stampò in infinite copie che spedì a tutti i suoi concittadini, elevando così a memoria il suo grido di dolore:
“Un di, se non andrò sempre fuggente di gente in gente, mi vedrai seduto o terra mia gemendo il fior dei tuoi gentili anni caduti. Ma io deluso a voi le palme tendo e se da lunge i miei tetti saluto. Questo di tanta speme oggi mi resta”.
Ognuno di noi può essere Arturo poiché in ciascuno vi è il desiderio, la sensibilità e l’idea di vivere in un mondo migliore e di progettare un futuro per i nostri figli. Ma spesso ci lasciamo prendere dalle piccole cose della quotidianità e dalla impressione di non poter cambiare il corso della storia, di esser una piccola cosa in un mondo che ci rende complici e ci logora. Ma non dobbiamo arrenderci e divenire indifferenti poiché quello che non immaginiamo che accade spesso diventa realtà.