Procidea – Se proporre la candidatura a Capitale italiana della cultura non vuol dire, come ha di recente ricordato il Ministro Dario Franceschini, proporsi a un “concorso di bellezza”, ma proporsi come una “città che riesce a sviluppare il progetto culturale più coinvolgente, aperto, innovativo e trasversale”, il Sindaco e il Museo della Civiltà Contadina “Cosimo Nardi” di Montefalcone hanno deciso di appoggiare la candidatura della città di Procida.
Lo hanno deciso innanzitutto perché si sono sentiti profondamente coinvolti dallo slogan procidano che sostiene che ‘la cultura non isola’ e poi perché hanno potuto toccare, per così dire con mano, quanto Procida sia capace di progetti culturali coinvolgenti e trasversali, oltre che aperti e innovativi, proprio come si richiede dal concorso. Il Museo della Civiltà Contadina ha partecipato ad uno degli ultimi progetti partiti da Procida e ancora in corso, su I segreti del calendario, dove tutto il paese, dal Sindaco ai ragazzi delle scuole, sono stati coinvolti in ricerche relative alle tradizioni del Fortore legate a giorni festivi
del calendario. Leggendo i risultati di queste ricerche molti di loro hanno sperimentato per la prima volta l’antica, emozionante lettura pubblica ad alta voce -che per secoli, come si sa, è stata l’unica forma di lettura conosciuta- e ascoltando a loro volta le tradizioni procidane, sono stati seguiti in contemporanea da centinaia di persone con un collegamento google meet organizzato dal nostro Museo con la Biblioteca di Procida e il gruppo delle Lectrices in Fabula. Gruppo che proprio a Procida è stato fondato, ispirandosi al noto libro di Umberto Eco (Lector in fabula, Milano 1979), adattandone in un certo qual modo al femminile la geniale intuizione originale. E tutto questo pur appartenendo Montefalcone ad un’antica civiltà soprattutto contadina e pastorale, così diversa e lontana da quella marinara di Procida; una civiltà, quella testimoniata nel nostro Museo, quasi dimenticata, marginale rispetto ai circuiti più noti del turismo culturale, pur essendo il Museo ricchissimo di una collezione di oltre tremila pezzi che solo attraverso il suo innovativo sito internet (https://sites.google.com/view/museo-della-civilt-contadina-d/home-page ) poteva, in questo periodo di pandemia, essere visitato. Dunque il nostro convinto appoggio a Procida si basa su questi punti precisi. Certo, è vero che “la cultura non isola” se i mille fili di un progetto culturale riescono a collegare un paese nello spazio e nel tempo ad altri paesi, altre persone, altre epoche. E Procida non si è mai isolata. Non si è mai isolata culturalmente e non si è mai isolata politicamente. Non si è isolata politicamente anche pagandone a volte un prezzo molto alto, come ad esempio nel 1799, quando i primi condannati a morte per aver parteggiato per gli ideali della Repubblica Partenopea sono stati i procidani. E una tormentata lapide innalzata e spostata più volte ne riporta il lungo elenco, mentre le pagine dei registri dei defunti nell’archivio di San Michele Arcangelo -uno dei più completi, tra quelli di questa tipologia, e meglio conservati del meridione che permette di ricostruire le storie di tutte le famiglie procidane dai primissimi anni del Seicento ad oggi- ne documenta la tragica fine. Procida non si è mai isolata “culturalmente”, sia che si voglia intendere questa parola nel più largo senso antropologico, sia che la si voglia restringere al senso tradizionale. Basta pensare a quanti procidani, fin dalle loro appartenenze più marginali, come i pescatori della Corricella e quelli della Chiaiolella, siano sempre stati pronti a sperimentare mari diversi e lontani e sistemi di pesca innovativi. I primi, i pescatori della Corricella, trasferendosi come una vera comunità a metà Ottocento nell’Africa settentrionale, nella città di Mers El Kebir in Algeria, hanno costruito un modello importante di perfetta integrazione culturale di questa emigrazione oggi ritenuta “al contrario”, e proprio per questo simbolicamente molto significativa. I registri degli Stati delle anime del ricordato archivio, oltre che un libro tradotto dal francese negli anni ’80 del secolo scorso dal curato dell’abazia don Luigi Fasanaro (anche questo è un particolare interessante) ce ne narrano la storia (F. Succoia, Mers-El-Kebir, Procida come amore, tr. it Luigi Fasanaro, Napoli Raffone 1986). Altri esempi ci vengono da altri pescatori, in particolare da quelli della Chiaiolella, che con le loro cianciole, venuti a conoscenza che le acque di Trieste erano assai pescose di alici, non esitarono a recarsi in quel mare già intorno agli anni Trenta/Quaranta del ‘900 portandovi i nuovi sistemi di pesca, come fecero anche in altri posti, trasferendo anche la loro antica arte di carpentieri navali, fondando con i loro mastri d’ascia cantieri tuttora importanti.
E se i pescatori e i carpentieri navali hanno sempre cercato con coraggio e fantasia di risolvere in comune i problemi del loro lavoro, i comandanti delle navi hanno percorso i mari più lontani da secoli con tartane e velieri, e poi con le moderne imbarcazioni di oggi. Basterà ricordare che l’ultima nave italiana capace di avventurarsi nei mari del sud fino a varcare forse il più temibile dei passaggi, quello di Capo Horn, fu una nave con un comandante procidano: Vincenzo Scotto di Perrotolo. Lo ricorda, a sottolineare i legami “del mare” tra Procida e le altre città marinare d’Italia, un bel libro di un comandante ligure, Flavio Serafini (Uomini e bastimenti italiani di Capo Horn, Gribaudo 2004). Anche le donne di Procida non si sono mai isolate: né nel passato, pronte ad intraprendere in gruppo e in scuole, lavori di filatura, tessitura (c’erano duecento telai secondo un censimento del 1874), ricami preziosi col filo d’oro anche per committenze esterne all’isola, come pronte ad accompagnare gli uomini nell’emigrazione invece di lasciarli andare soli, come accadeva in tanti altri luoghi. E anche di queste donne e di questi uomini emigrati, come abbiamo visto non solo in America, i registri abaziali ci dicono la storia. Anzi le donne di Procida -tra le quali nel recente passato e nell’attuale presente non possiamo dimenticare né cantanti famose come Concetta Barra, né scienziate ormai celebri per aver isolato il coronavirus come Maria Rosaria Capobianchi- vantano tradizioni di innovazione e creatività anche in quelli che solitamente vengono considerati i ruoli più tradizionali e conservatori, quelli delle bizzoche, dette anche monache di casa. Queste bizzoche, che tra Seicento e Settecento, per poter vantare tale titolo dovevano fare ufficiale richiesta al vescovo (e questi numerosissimi documenti costituiscono una preziosa fonte di ricerca) a Procida si inventarono molti mestieri per poter sopravvivere “fuori dei chiostri” e spesso anche senza il supporto familiare. E alcune si specializzarono, per così dire, come “lettrici” del quadrillo, piccoli reliquiari talvolta preziosissimi in argento e oro, talvolta poverissimi e ricamati da mani malferme, e attraverso queste letture rispondevano alle angosciose domande di altre donne su salute e malattia, su notizie di familiari lontani, su amore e matrimonio. Ed è partendo da oggetti come questi che Procida sta avviando quello che forse è il progetto più innovativo e coinvolgente di tutti, il primo Museo delle Donne del Mediterraneo, che riunirà in un work in progress potenzialmente infinito, tutti gli oggetti e i documenti che antiche rotte sul mare e recenti contatti della rete informatica con le donne e le culture di tanti paesi rendono oggi concretamente fattibile.
Dunque la cultura a Procida davvero “non isola”, ed oggi essa è pronta con tanti progetti a tessere le fila di sempre nuovi rapporti culturali. E ciò fa non solo con grandi città e con famosi personaggi del mondo della cultura, che pure sono coinvolti da sempre -il Premio Elsa Morante ne è di certo uno dei più significativi- ma lo fa, ed è questo quello che ci ha particolarmente commosso, anche con paesi poco conosciuti come Montefalcone di Valfortore che in un certo senso è pur esso un’isola, un’isola non circondata dal mare, ma tuttavia luogo isolato, non facile, come abbiamo detto, da raggiungere nei soliti percorsi turistici. Eppure un luogo, come dice l’intitolazione del nostro Museo, di una “civiltà contadina” che merita di essere conosciuta anche fuori del Fortore, proprio come stiamo facendo attraverso tante letture pubbliche, come quella dello scorso Natale che raccontava che, quando “il Bambino Gesù veniva trasportato processionalmente […] i pastori e i contadini avevano il privilegio di portare il sacro ombrello, i ceri accesi e i molti campanelli e dietro di loro i signori o galantuomini, i quali però se volevano essere ammessi alla cerimonia, dovevano indossare il pelliccione: una specie di bianca pelle pecorina…Neanche le prime dignità del paese, né la nobiltà più cospicua poteva essere ammessa al sacro bacio del Bambino, senza quella tenuta pastorale” (Natale 1949 nella Valfortore, in “Valfortore Quindicinale di vita paesana”, 1949).
Anzi possiamo dire che ciò che il nostro Museo soprattutto si augura è che questa collaborazione con Procida possa davvero continuare e che Montefalcone, accolto nel magico cerchio dei progetti procidani, possa non essere più isolato e ritrovare anche nelle sue sempre più conosciute e valorizzate tradizioni, gli strumenti per poter disegnare un suo proprio percorso di sviluppo anche turistico e lavorativo. È per averci reso partecipi di tanti racconti, di così profonde emozioni, per averci coinvolto nella bella e grande avventura che storia, antropologia, ricerca e museologia riescono a far rivivere, per averci fatto vivere la vita del mare e per aver condiviso con noi le nostre tradizioni pastorali e contadine, che ci auguriamo che Procida possa essere davvero, per un anno, capitale italiana della cultura, perché poche sono le città d’Italia che in tale piccolo spazio geografico sono riuscite ad entrare in uno scambievole abbraccio culturale con un così vasto spazio del mondo come Procida.