Procida – Perché le isole. Perché fazzoletti di terra circondati dal mare sono diventate sedi di carcere. Procida poi. Da Palazzo nobile a penitenziario.
Se ne discuterà prossimamente alla presentazione del libro “Le isole carcere” di Valerio Calzolaio.
Una anteprima di quanto si discuterà è stata offerta da Avvenire che ha ripercorso la presentazione a Ventotene
«Isolare». Per definire l’azione di separare, allontanare, impedire le comunicazioni è stato creato un verbo che deriva da “isola”. Sì, perché da millenni – in tutti i continenti e in tutte le culture – le piccole porzioni di terraferma circondate dal mare sono state scelte per costringere in un luogo le persone sgradite. Come i romani che usavano la relegatio e la deportatio in insulam.
E per avere l’assoluta certezza di tenerle recluse, alla recinzione del mare sono stati via via aggiunti muri e sbarre. Oggi sono almeno 270 le isole-carcere nel mondo, un terzo ancora aperte, per detenuti comuni, oppositori politici, prigionieri di guerra. In Italia c’è il penitenziario borbonico di Santo Stefano, che ospito l’antifascista Sandro Pertini, dependance penale di Ventotene, già di suo un’isola di confino. Ma anche l’Asinara e Favignana.
In California poi c’è Alcatraz, che in spagnolo antico significa pellicano. In Croazia Goli Otok, l’Isola Calva per gli oppositori di Tito. E ancora in Florida l’ex forte di Garden Key. O Hashima in Giappone, per i soldati cinesi e coreani. Un universo particolare, radiografato e raccontato per la prima volta in Italia dalla ricerca pluridecennale di Valerio Calzolaio confluita nel volume “Isole Carcere. Geografia e Storia”, pubblicato dalle edizioni Gruppo Abele.
Lo studio si inserisce nel percorso di memoria e di recupero dell’ex carcere di Santo Stefano: un progetto di recente intitolato a David Sassoli, vista la vocazione europeista della prospiciente isola di Ventotene, culla del Manifesto di Altiero Spinelli. Il volume, presentato al Palazzo delle Esposizioni di Roma, offre un’ampia analisi delle isole carcere nel mondo. Tra queste, 22 sono approfondite in apposite schede dedicate, tra i quali appunto l’ex carcere borbonico di Santo Stefano di Ventotene che, come scrive l’autore, «rappresenta un “unicum” tra le oltre 270 isole da me prese in esame in oltre 25 anni di raccolta di dati».
La narrazione si sviluppa su registri che incrociano il terreno socioculturale, oltre che geografico e storico. Per Silvia Costa, Commissario di governo per il progetto di recupero di Santo Stefano, «è una inedita ricerca che consente una ricostruzione della insularità legata all’esilio e alla detenzione nel mondo e nel Mediterraneo.
E Ventotene e Santo Stefano sono luoghi emblematici per ripercorrere una narrazione che va dall’esilio alla relegatio in insulam di epoca romana, iniziata con Giulia, figlia di Augusto, alla detenzione politica, all’ergastolo, al confino, fino alla concezione costituzionale della pena, rieducativa e non come vendetta sociale». Una rivoluzione penale avviata già negli anni ’50 dal direttore del carcere di Santo Stefano Antonio Perucatti, cattolico illuminato.
Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, parte dall’«isolamento forzato del lockdown» per dire che «questo libro può essere letto come una suggestiva metafora: il primo carcere siamo noi stessi, quando diventiamo isole. cediamo all’egoismo e alla competizione, ci arrocchiamo dentro identità fasulle. L’io è un’isola-carcere dalla quale è fondamentale evadere, per tornare alla meraviglia dell’incontro con gli altri».
Per don Ciotti «il carcere oggi dovrebbe essere l’extrema ratio cui preferire le pene alternative, oggi ancora poco applicate. Per i migranti detenuti senza affetti né legami è difficile usufruire di permessi e formule diverse dalla detenzione. Così il carcere è ancora un tappeto sotto cui si nascondono tanti problemi sociali».
Proprio i migranti sono loro malgrado protagonisti di una pagina particolare della storia delle isole carcere. Valerio Calzolaio cita Lampedusa, Lesbo e le isole australiane – come fu Ellis Island a New York – che diventano un limbo per concentrare i profughi. Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore, ce l’ha con quelli che chiama «i “pasdaran della pena”, che invocano la detenzione come una panacea. Da laico devo dire che c’è una sola forza, la Chiesa, che da sempre è stata per la rieducazione e le pene alternative, specie per le condannate con bambini piccoli».
Anthony Santilli, responsabile del Centro documentazione del confino e detenzione del Comune di Ventotene, sottolinea che «il rapporto tra insularità e relegazione nel mondo testimonia un’esigenza che il potere ha sempre mostrato sin dai tempi più antichi: quella di allontanare soggetti giudicati indesiderati e pericolosi non solo dalle società ma anche dalla vista».