Procida – Questa volta la Treccani lancia un grido di allarme. Da tempo l’istituto sta attenzionando l’isola di Arturo, sempre con lo stile che i suoi writer sanno adoperare.
Questa volta a finire sotto la lente di ingrandimento l’abbazia di San Michele a Terra Murata, gioiello culturale e architettonico dell’isola e radice della storia isolana.
«Questo mese il ritorno è a Procida, Capitale della cultura 2022. Sabato 9 aprile il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha tenuto sull’isola il discorso di inaugurazione, nel segno della conoscenza e della pace: parole dense e mai così condivise, in un momento storico totalmente ottenebrato dalla guerra della Russia contro l’Ucraina.
Procida ha raccolto la sfida, mettendo la cultura al centro del suo mondo e spalancando le porte come mai era accaduto nel passato. A poche miglia da Napoli, Ischia e Capri questo scoglio così caro a chi scrive ha preservato nel tempo la sua dimensione schiva e defilata, scegliendo solo in epoca recentissima di aprirsi al turismo e all’accoglienza.
Tra le sue vie in tufo, i casali e i porticcioli è tutto un pullulare di eventi, spettacoli, manifestazioni artistiche, progetti futuri. Uno di questi si spera riguardi al più presto l’abbazia di S. Michele Arcangelo, il baricentro spirituale e filosofico dell’isola, da tempo a parziale rischio crollo. La sua storia è un’eccezione e ha segnato nel profondo le vicende della comunità procidana: fondata dai benedettini nel 1026, fu nullius diocesis fino al 1600 ‒ anno in cui venne incardinata alla diocesi partenopea e in cui iniziò un percorso di convinta riluttanza a qualunque obbligo, condizionamento e sottomissione proveniente “da fuori”.
Procida non rinunciò mai ai propri usi e costumi e creò più di un grattacapo a diversi vescovi (come spiega magistralmente lo storico Giovanni Romeo nel suo ultimo libro L’isola ribelle, Editori Laterza, 2020): questa attitudine autarchica e insofferente alle imposizioni ha connotato nei secoli il carattere dei Procidani, solo oggi più inclini ad aprirsi al mondo.
L’abbazia si erge come il vessillo di questa indomita personalità. È anzi la prua dell’isola e da sempre solca il mare, i cambiamenti, il tempo che passa. Da sola vale la trasferta. Nella grancìa di Terra Murata, svetta a strapiombo su un costone tufaceo minato dall’erosione ‒ fenomeno che interessa purtroppo gran parte delle coste isolane.
Il pericolo incombe soprattutto per la navata destra e la sagrestia, a filo della parete verticale: sono in progetto interventi di messa in sicurezza e ci si augura che questo anno intitolato alla cultura consenta di avviarli al più presto. Il complesso abbaziale costituisce infatti un unicum storico e architettonico di raro interesse, da tutelare senza se e senza ma, come i manufatti custoditi all’interno.
Linee rette e curve si intrecciano nella struttura, evocando forme divenute archetipi nelle opere del maestro Gaudì; le facciate contrapposte dialogano tra loro in romanico e in stile cinquecentesco; tre cupole si alzano verso il cielo affiancando il campanile; il terrazzo con la meridiana si staglia verso l’orizzonte, sopra le segrete misteriose.
Il percorso di scoperta si muove prima in orizzontale, tra le cappelle e le navate affollate da preziose opere d’arte: su tutte si impone la tela di S. Michele Arcangelo che scaccia i Saraceni (attribuita a Nicola Russo, 1690), il manifesto religioso dell’isola. Degni di nota sono anche il Trittico del Santissimo Sacramento (XVI secolo), la tela tardo-cinquecentesca della Dormitio Verginis, la statua di S. Michele Arcangelo in oro e argento e la vasca di Nettuno agricoltore ‒ uno dei reperti più antichi rinvenuti a Procida.
E poi, all’improvviso, lo scandagliamento inizia a muoversi in verticale: si osserva in basso, tra le botole pavimentali delle sepolture riservate alle confraternite; e in alto, impennando lo sguardo verso lo spettacolare soffitto in oro zecchino e la cupola nuda dell’altare maggiore (ricostruita dopo la distruzione a opera di un fulmine nel 1836).
L’ascesa continua all’aperto tra le cupole e il campanile, per poi tornare verso il basso scendendo nelle cappelle seminterrati, gli originari luoghi di culto delle confraternite che custodiscono nel silenzio cori lignei, statue, affreschi. Giù, giù, fino alle segrete, antico luogo di sepoltura con le tetre sale di interro e mummificazione. Tra scalini nel tufo, archivi storici e stemmi cardinalizi la precarietà ci accompagna a ogni passo. Cresce dentro di noi la consapevolezza del ruolo salvifico di luoghi come questo, fieri baluardi di umanità da opporre alla barbarie e al dolore della guerra. L’abbazia ci riscatta, ancora una volta, ma tocca a noi oggi restituirle salvezza. Per il futuro nostro e delle prossime generazioni».