Giovanni Romeo – C’è qualcosa di paradossale per chi si avvicini alla storia di Vivara, l’isolotto unito a Procida da un ponte, ma attualmente pressoché inaccessibile per le complicazioni legate al suo recente ritorno in mani private. Se, grazie alle fruttuose ricerche archeologiche svolte nell’ultimo mezzo secolo, si è nitidamente profilata la sua importanza nel quadro dell’economia mediterranea tra l’età del bronzo e l’inizio dell’età moderna, è buio fitto sulla fase successiva, in cui Vivara restò di fatto disabitata.
Il solo dato certo, accanto alla circostanza che vi fu intensamente praticata la caccia, come d’altronde in tutta Procida, riguarda l’uso del suo territorio. I marchesi d’Avalos la davano regolarmente in fitto a fattori, che la coltivavano fruttuosamente, soprattutto in funzione della produzione di olio. Il suo isolamento inoltre era relativo, soprattutto quando gli ortolani che ne gestivano la terra erano originari di Procida e intrattenevano stretti rapporti con i suoi abitanti.
Grazie al loro ruolo anche un’isola disabitata poteva diventare sede di incontri e di una socialità diffusa. È quanto capitò nel settembre del 1716. Fu allora che gli accordi di fidanzamento da poco raggiunti tra due famiglie di Procida – una di esse però viveva a Napoli – furono cementati proprio a Vivara, a casa del fattore, in una giornata piena di allegria e di buonumore. Sappiamo parecchio di quell’incontro festoso e movimentato solo perché nel giro di pochi giorni i rapporti tra le due famiglie si deteriorarono irrimediabilmente e Rosa, la fidanzata ‘tradita’, citò in giudizio dinanzi al tribunale arcivescovile di Napoli il diciannovenne Ignazio.
La vertenza mirava a bloccare eventuali istanze di matrimonio del giovane con altre donne, in base al presupposto dell’obbligo, contratto in base agli accordi raggiunti, di sposare lei. A nulla valsero però le svariate deposizioni raccolte e i numerosi documenti allegati, tra cui spiccano sia alcune goffe lettere d’amore di Ignazio, sia le numerose testimonianze che confermano la cronica difficoltà della Chiesa di piegare gli isolani al rispetto dei rigidi modelli di comportamento prescritti per i fidanzati dal concilio di Trento. Il processo, ricco e vivace, si chiuse nel 1718 con il rigetto della richiesta di Rosa, cui fece seguito il matrimonio del giovane con un’altra donna.
Il documento costituisce però anche una testimonianza preziosa per Vivara e per l’importanza che essa ha nel cuore dell’età moderna per l’affollata comunità procidana. È curioso ad esempio che alcuni testimoni la descrivano come un ‘luogo’, quasi che le sue ridotte dimensioni non autorizzino a definirla come isola. Né è meno indicativa la familiarità dei procidani con Vivara, che trapela qua e là tra le righe del manoscritto: qualcuno riferisce che l’estate vi è deliziosa, qualche altro che da Procida, vista la vicinanza, era facile andarci a spasso (bastava avere una barchetta).
Quando però si voleva organizzare una vera e propria festa, come nel caso di Rosa e Ignazio, arrivarci era più complicato. C’era voluta infatti la tartana del padre di lei per trasferire dalla Corricella a Vivara il consistente gruppo di familiari e amici invitati a partecipare a un momento della vita così importante per i due giovani. La giornata era stata bellissima, l’atmosfera cordiale e allegra. Alcuni dettagli sono indicativi. Durante il pranzo, quando Gennaro, il padrone di casa, aveva chiesto alla madre del giovane come avrebbero risolto il nodo della consanguineità dei due promessi sposi, lei aveva risposto con prontezza che ‘perciò lo papa sta a Roma, per dispensare alla parentela…” e che desiderava che a godere dei suoi beni fosse una congiunta, non una estranea. Dopo pranzo, inoltre, mentre si sparecchiava, la donna aveva estratto da una tasca molti confetti e li aveva lanciati addosso ai due promessi sposi, aggiungendo:
Di qui a cent’anni, a nome di figlio mascolo…
Non meno festoso, poi, era stato il ritorno sulla tartana, insieme al fattore e alla moglie, invitati a cenare a bordo all’arrivo alla Corricella. Lì fu il papà di Rosa a ricambiare gli auguri alla coppia, in modo non dissimile da quanto aveva fatto la madre di Ignazio. Aveva gettato in coperta quattro ducati d’argento e aveva detto ai due giovani:
A tiempo meglio, in gratia di Dio, a nome di figlio mascolo, e vi possiate fare una galera…
La giornata si era chiusa poco dopo, nel segno di un’intesa destinata peraltro a durare poco. In quegli anni le tensioni tra i fidanzati e le rispettive famiglie, complice anche la crescente intolleranza delle autorità ecclesiastiche, erano sempre più vive, a Procida come a Napoli. I testimoni chiamati ad esprimersi sul caso di Rosa e Ignazio ne sono molto ben informati: gli omicidi, i tentati omicidi e le fughe dall’isola a seguito di promesse matrimoniali non onorate erano in forte crescita. Ma questa, s’intende, è un’altra storia, che non riguardava in alcun modo i soggiorni dei fidanzati nelle delizie di Vivara.