Giovanni Romeo – A poche decine di metri dal mare, lungo il porto di Procida, c’è una chiesa, dedicata alla Madonna della Pietà, a S. Giovanni Battista e a S. Leonardo, che a prima vista può sembrare un luogo sacro come tanti. Non è così. Sia per la sua costruzione, autorizzata nel 1617, sia per la sua tormentata storia, si rispecchia in quella chiesa tanta parte delle vicende civili e religiose dell’isola in età moderna. A chiedere al solo viceré il permesso di costruirla, senza coinvolgere la Curia arcivescovile di Napoli, fu il Monte dei marinai, un istituto di assistenza per gli uomini di mare dell’isola e le loro famiglie costituito nello stesso anno.
Era l’ennesima sfida agli arcivescovi di Napoli lanciata da una comunità privata della sua autonomia dalla Curia romana quando, agli inizi del secolo, quest’ultima aveva deciso di incardinare Procida nella arcidiocesi di Napoli. In quella Chiesa di Stato il Monte avrebbe fatto il bello e il cattivo tempo almeno sino alla fine dell’Ottocento, forte delle consistenti rimesse dei marinai associati. Da allora, inoltre, degno corollario dell’iniziativa fu la celebrazione al suo interno e nel mare contiguo di feste di schietta ascendenza pagana, come quelle della vigilia di S. Giovanni.
Si cercherebbero invano cenni a questi aspetti dell’identità isolana nelle iniziative in corso, che hanno ignorato e ignorano la storia dell’isola, a meno che non si voglia ricordare un incontro surreale del giugno scorso, severamente stigmatizzato sulle colonne de “Il Dispari”. Né è meno discutibile la ricca produzione editoriale stimolata dalla decisione di istituire Procida come capitale italiana della cultura per l’anno in corso. Al di là delle guide turistiche, dei testi letterari e dei libri di stampo autobiografico, non mancano i lavori dedicati ai rapporti degli isolani con il mare e la religione, nel solco di una ricca tradizione. Si pensi solo allo spazio che la questione occupava già nel 1893 nel libro più importante dedicato finora alla storia di Procida, quello scritto da Michele Parascandola, un valente professore di liceo.
Dispiace invece di osservare la scarsa consistenza di questi nuovi testi. Vi si discute con leggerezza sorprendente di questioni storiche complesse, che richiederebbero studio, riflessione e confronti attenti con altri contesti. Il dato è particolarmente significativo quando gli autori appartengono al variegato universo dei ricercatori. La severa stroncatura di uno di questi volumi, un lavoro collettivo davvero modesto, intitolato ‘Procida sacra’ e curato da un docente della Università Federico II, è stata deplorevolmente ignorata dall’interessato (l’ha scritta una giovane e attenta studiosa e chiunque la può leggere al link https://www.cantierestoricofilologico.it/2022/05/a-proposito-di-un-libro-sulla-vita_01364765039.html
Uno dei particolari più assurdi del libro in questione è che in esso non si rispetta neppure il nome del Monte dei marinai, l’istituto che espresse al meglio, almeno fino alla fine dell’Ottocento, i rapporti dei procidani col mare e con la Chiesa. Vi si adotta invece la terminologia posticcia di ‘Pio Monte dei marinai’, affibbiata ad esso nel corso del Novecento dalla Curia arcivescovile di Napoli, nel solco del tenace lavorio avviato nel cuore del Seicento per infiltrarsi nella potente istituzione isolana.
Tuttavia il lavoro più sconcertante è senza ombra di dubbio un testo recente (‘Procida orizzonte mare’), in cui si raccolgono, insieme a un numero spropositato di foto, otto saggi. Se si esclude un contributo ineccepibile, ma limitato al vulcanismo di Procida e ai risultati delle ricerche archeologiche condotte a Vivara, si tratta di interventi modesti, schiacciati oltre tutto sull’Ottocento isolano. Vi si ripetono luoghi comuni, integrati di tanto in tanto da occasionali citazioni di singoli manoscritti, e si ignorano aspetti cruciali della storia dell’isola. Fa sorridere ad esempio il disinvolto cenno al Monte dei marinai, ‘sistemato’ a p. 48 con un breve riassunto del suo statuto…
Tra l’altro, anche per il secolo più ‘battuto’ nell’insipido volume, sarebbe bastato studiare un po’ per rendersi conto della combattività con cui i marinai isolani difesero la propria identità e la propria chiesa dalle manovre della Curia arcivescovile. Per tutto l’Ottocento i rapporti dei governatori del Monte con il clero abbaziale, periodicamente chiamato a dire messa in una chiesa ‘eretica’ e periodicamente ‘cacciato’ dal luogo sacro, furono faticosi e fragili. Persisteva nella potente istituzione isolana una diffidenza atavica nei confronti delle autorità diocesane, che ovviamente manovravano a proprio piacimento la stragrande maggioranza dei sacerdoti locali, ma non i padroni dei bastimenti.
È indicativo che cosa successe a seguito dei moti rivoluzionari del 1848. Siccome svariati esponenti del Monte “avevan figli preti del clero regio, si fece altra ribellione, fu allontanato il clero, e i preti regii con altri preti figli di patroni, cioè proprietari di bastimenti, si posero a servire e funzionare in quella chiesa…”. A quei rilievi, dovuti alla penna del curato dell’abbazia di S. Michele Arcangelo e trasmessi nel febbraio del 1900 ai superiori, seguiva l’amaro commento finale: quella Chiesa era stata ed era il termometro delle rivoluzioni.