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Procida, il mare e la morte. A proposito del Seicento

DiRedazione Procida

Set 11, 2022

Giovanni Romeo – Naufragi e morti tra le onde in tempesta hanno fatto parte a lungo della quotidianità nelle comunità costiere del Mediterraneo. La storia di Procida, che al mare deve gran parte delle sue glorie e delle sue ricchezze, ne offre molte testimonianze, e non soltanto per l’Otto-Novecento. Né sono solo i viaggi più lunghi e pericolosi e le ricche collezioni di ex voto ad averne lasciato traccia. Un alto numero di drammatici episodi legati ai pericoli del mare e delle stesse coste punteggiava da sempre la vita isolana.

La documentazione relativa a queste vicende è particolarmente varia e vivace nella Procida del Seicento. Si tratta di un secolo cruciale per l’isola. Proprio in esso, infatti, si pongono le basi di uno straordinario sviluppo economico e demografico. Si pensi soltanto alla circostanza che i suoi abitanti raggiunsero nei primi decenni del Settecento la ragguardevole cifra di 14.000, rispetto ai poco più di 2000 di fine Cinquecento.

Ancora, agli inizi del Seicento mutò il suo governo spirituale. Procida perse per sempre l’ampia autonomia di cui godeva la sua Chiesa, grazie alla diretta subordinazione al papa (era uno dei privilegi dell’abbazia di S. Michele Arcangelo). Dal febbraio del 1600 la comunità isolana passò definitivamente, ma molto malvolentieri, dal governo degli abbati alla dipendenza dagli arcivescovi di Napoli. Questi ultimi brigavano da tempo a Roma per incardinarla nella propria diocesi, attirati dalla ricchezza dei beni dell’abbazia e dal florido andamento dell’economia locale.

Questa svolta, oltre a provocare conflitti interminabili, legati alla introduzione di più severi controlli sulla pratica religiosa e sui costumi degli isolani, ebbe immediatamente esiti sconvolgenti sulla loro vita quotidiana. Si cominciò con l’accelerazione del battesimo. Bisognava somministrarlo al più presto a tutti i neonati, con conseguenze agghiaccianti quando le loro cattive condizioni di salute ne provocavano la morte prima dell’amministrazione del sacramento. Per pochi, terribili anni, i neonati isolani nati in cattive condizioni di salute e morti senza battesimo furono abbandonati all’aperto e finirono in pasto ai cani.

Fu solo l’inizio di una stagione lunga e dolorosa di controlli sul diritto alla sepoltura, per chiunque, ma in modo particolare per chi moriva all’improvviso. Proprio su questo versante si fecero sentire subito i rischi gravi dell’insularità, in tutte le sue articolazioni: dalla fragilità dei costoni rocciosi alle tempeste che sorprendevano a poca distanza dalla riva. Si moriva cercando di recuperare lapillo dai costoni dell’isola di Vivara, se un’onda improvvisa rovesciava la feluca e trascinava con sé il malcapitato, ma anche se si dormiva all’aperto sotto un costone pericolante, o quando giovanissimi mozzi cadevano dalle antenne delle tartane.

Per lunghi anni, soprattutto nella prima metà del Seicento, per le vittime di queste disgrazie, che furono a lungo a Procida la più frequente causa delle morti improvvise, la sepoltura non era garantita. Bisognava documentare in qualche modo che gli interessati si erano confessati e comunicati da poco, per evitare di inumare in terra consacrata persone morte nel peccato. Era doveroso perciò svolgere rapide istruttorie presso familiari e conoscenti: dal loro esito dipendeva la sepoltura.

Esemplare, al riguardo, fu nel 1658, il caso di Giuseppe Spiniello, un isolano morso da un serpente in terraferma e trasportato in gravi condizioni a Procida. Al porto lo aspettava un sacerdote, che in extremis gli diede il conforto dei sacramenti. Ma per la sepoltura non ci furono problemi: si accertò che si era confessato e comunicato il giorno prima e che aveva ricevuto la benedizione nel corso di una missione appena ultimata…

In assoluto, forse, nei variegati scenari di queste vicende l’episodio più doloroso capitò nel 1689. Il 17 maggio di quell’anno il breve viaggio di un gruppo di procidani che tornava da Ischia, dove aveva partecipato alla festa di S. Restituta, finì tragicamente. Nello sbarco al Pozzovecchio (la bellissima spiaggia, oggi celebre anche per una scena del film Il Postino di Neruda) ‘se rivoltò la felluca’ che li trasportava. Alcuni si salvarono a nuoto, ma due giovani donne furono scaraventate sulla spiaggia dalle onde, forse già in fin di vita. Entrambe furono assolte prima di morire da due sacerdoti, anch’essi imbarcati sulla feluca e finiti in mare. Forse erano già morte, ma, trattandosi di fedeli di ritorno da una festa religiosa, non ci furono problemi per la sepoltura…

Diverso era il caso di chi, sorpreso da malattie gravi nel suo letto, aveva dei conti da regolare con la Chiesa. Pochi anni prima, ancora nel mese di maggio, non c’erano stati sconti per una vedova su cui pendeva una delle tante scomuniche per concubinato che colpivano da tempo le coppie proibite dell’isola. Per poterle amministrare i sacramenti e garantirle una sepoltura il sacerdote accorso a casa sua dovette prima reintegrarla nella comunità dei fedeli. Scelte pastorali così rigide servivano però a poco. Se ne accorse nel 1693 l’arcivescovo di Napoli, nel corso di una burrascosa visita pastorale a Procida, in cui proprio la diffusione del concubinato fu oggetto di provvedimenti clamorosi, ma fallimentari. Questa però, s’intende, è un’altra storia.

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