Giovanni Romeo – Nella ricca documentazione relativa alla vita quotidiana a Procida in età moderna spiccano, per la vivacità e l’ampiezza degli orizzonti su cui spaziano, le serie giudiziarie. Denunce, processi, indagini sono miniere preziose. Vi si rispecchiano le contraddizioni di secoli cruciali per un’isola alle prese con le tante sfide di una crescita economica e demografica imponente. Non sono meno indicative, inoltre, le dinamiche legate alla rinnovata presenza della Chiesa.
I decreti approvati dal concilio di Trento nel 1563 furono una sfida coraggiosa alla crisi aperta dalla rottura dell’unità religiosa dell’Europa. Papi e cardinali sapevano bene che disordine e corruzione regnavano sovrani nel clero, in Italia e non. Ancor più scoraggiante era la situazione nelle comunità come Procida, abituate, grazie alla diretta soggezione al papa, a una libertà di comportamento molto maggiore rispetto a chi viveva all’interno di una rete diocesana. Combatterne gli abusi fu perciò un’impresa.
Un buon esempio di queste contraddizioni viene dal processo che costò nel 1577 il licenziamento a don Sebastiano Lubrano, il corrotto vicario locale del card. Innico d’Avalos, abbate di S. Michele Arcangelo. La venalità del sacerdote vi è impietosamente documentata per circa 8 anni (1568-1576). Colpiscono soprattutto i lunghi elenchi di multe da lui inflitte agli isolani.
Il nucleo più consistente di infrazioni di competenza ecclesiastica riguardava nel ’500 a Procida la violazione dell’obbligo del riposo nelle domeniche e nelle altre festività religiose. Non era un problema locale. La moltiplicazione del numero delle giornate in cui era vietato lavorare (nel Cinque-Seicento erano circa un centinaio all’anno), si scontrava ovunque con le esigenze vitali di buona parte della popolazione.
Due esempi sono istruttivi. Pescare aguglie nel mare di Ischia nel giorno di S. Martino costò nel 1569 a Giovan Giacomo Scotto la multa di un ducato e due tarì; era andata un po’ meglio due mesi prima – aveva pagato appena quattro tarì – a Sebastiano Galatola, che aveva pescato aguglie nel giorno della festa di S. Matteo, ma solo perché ne aveva prese di meno. Insieme ad essi almeno una cinquantina di pescatori isolani dovette versare tangenti più o meno sostanziose all’ecclesiastico.
In quegli anni, accanto ad essi e ai negozianti, furono tartassati a Procida anche i contadini, i proprietari di terreni e le casalinghe, grazie ad iniziative sconosciute, per quanto mi risulta, nel resto d’Italia. Gli uni non potevano raccogliere frutta e ortaggi di domenica o durante le festività religiose e se lo facevano rischiavano sanzioni pecuniarie; le altre in quelle stesse giornate dovevano evitare di stendere al sole i panni lavati. Tuttavia, quando erano scoperte, il vicario e i suoi complici si accontentavano – si fa per dire – di sequestrare loro qualche tovaglia…
L’abuso più grave di don Sebastiano riguardava però la monetizzazione diffusa di abusi affidati ai confessori e minuziosamente regolati a Trento nel 1563. In base ai decreti conciliari, per i peccati particolarmente gravi solo i penitenzieri diocesani o la Penitenzieria apostolica erano abilitati ad assolvere i responsabili.
Almeno due di quelle trasgressioni – le convivenze prematrimoniali e la scelta sospetta di tanti genitori poveri, giustificata con la mancanza di spazio, di dormire insieme ai neonati, che spesso morivano schiacciati (una specie di infanticidio mascherato) – erano presenti a Procida in quegli anni. Entrambe, ovviamente, furono sanzionate e monetizzate da don Sebastiano e dagli ecclesiastici che lo spalleggiavano.
Altri peccati, inoltre, avrebbero richiesto al vicario e al clero tutto interventi ben più risoluti. Penso alle bestemmie: una trasgressione diffusa in quegli anni nell’isola, cui la Chiesa romana guardava con viva preoccupazione. La decisione di affidare i bestemmiatori più accaniti agli inquisitori e di punirli, nei casi più gravi, con il taglio della lingua o con la pena capitale, fa parte del ridotto campionario di orrori autorizzato dal Sant’Ufficio nel tardo Cinquecento.
Don Sebastiano, invece, pensò bene che ricavarne un po’ di soldi sarebbe stato vantaggioso per lui e tranquillizzante per gli interessati. Con quella linea riuscì a garantirsi, curiosamente, anche il controllo delle bestemmie scappate a qualche isolano in terraferma. Era capitato a un giovane di Procida a Pozzuoli: il padre, Vincenzo Scotto, sanò l’abuso, forse per la coincidenza con la Pasqua, versando al vicario più di un ducato.
Quegli eccessi furono cancellati presto, sia per la controffensiva dei mastri laici della Chiesa madre e dei pescatori, sia per l’intervento dell’abbate. La confessione dei peccati rimase però in età moderna, a Procida come in tutto il mondo cattolico, una spina nel fianco per le autorità ecclesiastiche. Per rimanere alla storia isolana, si pensi solo a una dolorosa vicenda ottocentesca: nelle ingiuste accuse di adescamento in confessione e nel lungo esilio senza processo imposto al curato Tommaso Scotto di Galletta (il caso è stato recentemente ricostruito da Tobia Costagliola), fu decisivo il ruolo di alcuni confessori locali e delle penitenti da essi manovrate.