Giovanni Romeo – Due lenzuola, quattro cuscini, quattro fazzoletti, due ‘tovaglie di faccia’ e due ‘mesali di tavola’ (tutta roba nuova, si specificava), 25 ducati e l’impegno a vestire ‘di lino e lana’ la figlia diciassettenne, Vittoria Savarese: si riducevano davvero a poco il corredo e la dote assicurati alla ragazza dalla madre, la vedova procidana Lucia Pugliese, all’inizio del XVIII secolo. Malgrado tutto, però, il promesso sposo, Angelo Lubrano di Cicchetiello, un giovanissimo garzone di tartana, accettò l’offerta e il 1° ottobre del 1700 si obbligò dinanzi a un notaio dell’isola a contrarre matrimonio con Vittoria entro un anno.
Quella iniziativa, che chiudeva trattative intercorse esclusivamente tra le famiglie interessate, senza alcun coinvolgimento del curato o di altri ecclesiastici, ebbe però di lì a poco un seguito imprevisto. Il 18 gennaio 1701 una giovane isolana, Annuccia Longobardo, presentò nella Curia arcivescovile di Napoli una richiesta di impedimento matrimoniale contro Angelo. Questi, a suo dire, dopo aver promesso di sposarla, aveva intrattenuto rapporti confidenziali con lei e se n’era anche vantato a destra e a manca.
Successivamente, però, si era sparsa la voce che Angelo intendeva sposare Vittoria, con conseguenze disastrose per Annuccia. Proprio lui – dichiarava la ragazza nell’esposto – le aveva tolto la verginità. Se fosse convolato a nozze con un’altra, le sue speranze di trovare marito si sarebbero ridotte al lumicino. Alle autorità diocesane chiedeva perciò di bloccare eventuali richieste di matrimonio del giovane con qualsiasi donna.
All’iniziativa fece seguito nel giro di pochi giorni la controffensiva legale di Vittoria, che reclamò in Curia arcivescovile il suo diritto di sposare Angelo, sancito dall’intesa sottoscritta dinanzi al notaio. Forte di quell’accordo, anche lei chiedeva alle autorità diocesane di bloccare qualsiasi pratica matrimoniale che riguardasse il fidanzato. La legittimità della sua istanza era rafforzata – così continuava l’esposto – dalla circostanza che dopo l’impegno assunto da Angelo tra loro due c’erano stati regolari rapporti sessuali.
Si aprì così una procedura piuttosto rara nella ricca documentazione relativa ai fidanzamenti interrotti a Napoli e nella sua diocesi: un impedimento doppio, una controversia in cui contemporaneamente due sedicenti promesse spose si contendevano in tribunale il buon diritto di convolare a nozze con lo stesso uomo.
Nell’estate del 1701 sfilarono perciò dinanzi ai giudici diocesani i testimoni delle controparti, che presentarono, come sempre in queste cause, versioni opposte dei fatti. Ciascuna delle ragazze sostenne che il proprio rapporto con il giovane era il più recente e che l’altra accampava il diritto di sposarlo in modo pretestuoso, sulla base di relazioni occasionali. Una donna ricordò anche che Angelo se ne andava per le strade con un tamburo, cantando a squarciagola il suo amore per Annuccia…
Altri testimoni aggiunsero, a sostegno delle buone ragioni di quest’ultima, due particolari di rilievo. Era noto a tutti, nell’isola, che Vittoria non era stata sverginata da Angelo: si trattava solo di una voce diffusa ad arte da lei e dalla madre per rafforzare un’istanza di impedimento inconsistente. Non meno indicativa, inoltre, era stata la risposta del curato di Procida ai genitori del giovane, che gli avevano chiesto di avere pazienza col figlio, di non scomunicarlo per i suoi rapporti proibiti con Annuccia, perché di lì a poco i due si sarebbero sposati. L’ecclesiastico li aveva tranquillizzati: aveva alzato la voce con lui per la relazione sospetta che intratteneva con Vittoria, non per la familiarità con la sua promessa sposa.
Il rilievo di quelle argomentazioni non bastò ad Annuccia per vincere la causa. Fu premiata la strategia processuale dell’avvocato di Vittoria, che aveva anche avviato una identica azione legale dinanzi al tribunale del governatore di Procida. Certo, nessuno dei due giovani aveva avvertito l’esigenza di ufficializzare la promessa di matrimonio dinanzi al curato.
Sarebbe diventata quella, nel corso del Settecento, la decisione più fruttuosa per le ragazze che cercavano giustizia nel tribunale diocesano. Nella sua battaglia legale, però, Vittoria fu forse avvantaggiata dall’esistenza dell’accordo stipulato dinanzi al notaio e dalla risoluta volontà del giovane, ribadita in giudizio, di sposare lei, non Annuccia. Non a caso, infatti, Angelo e Vittoria si sposarono pochi giorni dopo la sentenza e vissero insieme per oltre quarant’anni, allietati da sei figli, di cui due adottati. Della sfortunata Annuccia, invece, si perdono per sempre le tracce.
In ogni caso, per la Chiesa napoletana quei contrasti non erano particolarmente incoraggianti. La clamorosa iniziativa assunta nel giugno del 1693 dall’arcivescovo Giacomo Cantelmo – aveva scomunicato in blocco tutti i fidanzati/conviventi procidani nel corso di una visita pastorale – non stava dando i frutti sperati. Nell’avvicinamento al matrimonio le plurisecolari tradizioni isolane continuavano a pesare più delle regole dettate dalle autorità ecclesiastiche. Inoltre, se c’erano novità – si pensi ad Angelo e al suo appassionato e rumoroso girovagare per l’isola – esse prefiguravano per il clero un futuro ancora più ingovernabile.