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TGPROCIDA

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Le Chiese di Procida e il diritto di asilo ai delinquenti. A proposito di alcuni casi settecenteschi

DiRedazione Procida

Ott 9, 2022

Giovanni Romeo – Fu la Curia arcivescovile di Napoli, nell’agosto del 1721, a richiamare l’attenzione del vicario foraneo di Procida su una questione spinosa. In quel momento nelle chiese dell’isola c’erano molti rifugiati e – cosa ancora più inquietante – alcuni di essi erano anche stati protagonisti di scontri a fuoco. Era un problema serio, che avvelenava da oltre un secolo i rapporti tra Chiesa e Stato in quasi tutta Italia. Se delinquenti, banditi o anche debitori insolventi volevano evitare i rigori della giustizia, era sufficiente che mettessero un piede su un lembo di terra consacrata per diventare intoccabili. Solo nei casi più gravi le autorità ecclesiastiche ne autorizzavano la cattura.

Proprio a Procida, nel 1684, come forse i lettori di Tg Procida’ ricordano, una folta rappresentanza di isolani armati, allertati dal sindaco, aveva assediato la chiesa abbaziale, per snidare dei contrabbandieri di pepe insediati al suo interno. Questi ultimi, però, protetti dal clero, pur avendo cercato di uccidere i doganieri che avevano arrestato un complice, erano sfuggiti alla cattura. Per la Chiesa isolana, tuttavia, a pochi decenni dal clamoroso episodio, non era solo il contrabbando il nodo cruciale nella tutela del diritto d’asilo. A Procida la comoda prassi di rifugiarsi nei luoghi sacri era cresciuta a dismisura anche per l’appoggio sempre più sfacciato del clero locale e delle stesse autorità diocesane. Oltre certi limiti, però, gli ecclesiastici non potevano sfidare lo Stato. Le due lettere che il vicario foraneo di Procida indirizzò ai superiori in seguito al sollecito ricevuto sono ricche di indicazioni al riguardo.

Nel giugno appena trascorso – scrisse il 21 agosto – due inquisiti di Pozzuoli, rifugiati nell’abbazia, avevano deciso di trasferirsi nella chiesa di S. Giacomo, senza problemi, come se fosse un normale cambio di residenza… Lì, dopo un diverbio con un isolano, uno di essi lo aveva ferito gravemente e aveva pensato bene di ritirarsi con il complice nella vicina chiesa dell’Annunziata. Di lì i due se ne erano poi tranquillamente tornati a Pozzuoli. Nel frattempo, per sovrappiù, grazie alla solerzia dello stesso vicario foraneo, avevano già ottenuto il permesso di scegliersi un’altra chiesa.

Ancora più sconcertanti sono i dettagli che lo stesso sacerdote fornì ai superiori riguardo all’arrivo a Procida, poche settimane dopo, di scrivani e soldati della Camera della Sommaria incaricati di catturare dei contrabbandieri di sale e tabacco. Qualcuno – complici o forse ecclesiastici – aveva subito informato gli interessati, che si erano rifugiati in due chiese (S. Antonio Abbate e S. Antonio di Padova). Quando però la pattuglia era passata dinanzi al primo luogo sacro, era stata oggetto di sberleffi da parte di un contrabbandiere.

A quel punto uno dei soldati aveva risposto alla provocazione, caricando il fucile. Solo l’intervento occasionale di un chierico, che aveva chiuso la porta della chiesa, aveva impedito uno scontro a fuoco. La richiesta di disarmare il gruppo di rifugiati, avanzata subito da due scrivani della Sommaria e approvata dalla Curia arcivescovile, appagò i funzionari. Nel frattempo, però, l’ecclesiastico aveva già trovato un’adeguata sistemazione alla banda, che, andati via i controllori, fu distribuita in varie chiese dell’isola, impegnandosi a restarvi con modestia (!).

Il bilancio complessivo della situazione presentato dal sacerdote ai superiori era peraltro impietoso. In quel momento, nel cuore dell’estate, nella chiesa di S. Antonio Abbate restavano rifugiati due contrabbandieri di sale, uno con moglie e figli, l’altro da solo; in quella di S. Antonio alloggiavano quattro ricercati per omicidio; due contrabbandieri e un uomo che aveva ferito una donna stazionavano nella chiesa di S. Giacomo, dove peraltro era molto probabile che ne tornassero altri, andati fuori per le fatiche del contrabbando…In quel quadro a tinte fosche c’era un solo, piccolo motivo di soddisfazione: non c’erano stati gesti irriverenti o atti immodesti.

Un anno dopo, peraltro, sempre su richiesta dei superiori, il vicario foraneo tracciava una relazione altrettanto preoccupata, soprattutto per la presenza di armi nelle tre chiese isolane che continuavano ad ospitare rifugiati e per le loro sospette ‘uscite’ notturne. In due chiese su tre (S. Antonio di Padova e S. Antonio Abbate) non erano state trovate armi, anche se dalla prima i quattro sospetti assassini ospitati potevano uscire tranquillamente di notte, perché la serratura non era adeguata. Nella terza, quella di S. Giacomo, oltre al problema di una chiusura adeguata, c’erano parecchie armi, sia del rifugiato che ci viveva, sia di alcuni contrabbandieri che gliele avevano affidate per tutto il tempo in cui sarebbero stati impegnati nel loro lavoro…

La notizia più interessante, che meriterebbe scavi adeguati, riguardava però il sindaco di Procida, rifugiato nel convento domenicano di Procida insieme a uno speziale, e un procidano molto in vista (‘una persona civile’), che se ne stava nella chiesa di Antonio di Padova, in compagnia dei quattro assassini di cui si è detto. Ne era ben noto a tutti il motivo, scriveva ai superiori: la paura – di essere ammazzati – per dei ‘torbidi’ correnti nell’isola. A scanso di equivoci, peraltro, il sacerdote precisava che essi si comportavano con il dovuto rispetto e che non erano armati.

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