Giovanni Romeo – Alcuni lettori sono rimasti colpiti – e in parte sorpresi – dal racconto delle estorsioni praticate nel tardo Cinquecento a Procida a danno degli isolani sia da un vicario del card. Innico d’Avalos, sia da alcuni confessori. La loro meraviglia riguarda in particolare le multe inflitte ai fidanzati che convivevano prima di sposarsi e ai tanti che lavoravano nei giorni festivi, dai pescatori ai commercianti, ma anche a chi raccoglieva frutta e ortaggi nel proprio giardino e alle casalinghe che stendevano i panni per asciugarli nei giorni festivi. È una reazione comprensibile, che merita peraltro qualche approfondimento, se si esclude la questione del bucato: un eccesso di zelo attestato finora, per quanto mi risulta, solo nell’isola. Si tratta, per il resto, di aspetti di un rigore ecclesiastico crescente, diffuso ovunque, nell’Europa rimasta fedele a Roma, dopo il terremoto cominciato con Lutero nel 1517.
È l’Italia, però, il terreno in cui influenti Congregazioni romane, vescovi e Ordini religiosi utilizzano più massicciamente il lavorio dei confessori per diffondere nuovi, severi modelli di vita cristiana. È, sin dall’inizio, un cammino in salita. Dovunque la documentazione lo consente, appaiono evidenti sia la diffidenza diffusa dei fedeli verso un sacramento tradizionalmente ‘difficile’, sia gli affanni delle autorità della Chiesa impegnate nel contrastarla.
Nell’Europa medievale lo spazio occupato dal sacramento della penitenza era davvero esiguo: ci si confessava abitualmente non più di una volta all’anno, ma evitando accuratamente i parroci e scegliendo confessori sconosciuti, nel timore di usi impropri degli errori e degli eccessi confidati. Perciò l’indizione dei giubilei e la diffusione delle missioni interne – tempi di grazia, in cui sacerdoti sconosciuti erano autorizzati ad assolvere anche dai peccati più gravi – furono gli strumenti utilizzati più spesso per vincere la diffidenza dei fedeli.
A Procida questi problemi furono acuiti dal forte spirito di indipendenza degli abitanti e dalla loro spiccata ostilità verso gli arcivescovi di Napoli, diventati ‘padroni’ dell’isola solo agli inizi del Seicento e avvertiti a lungo come sgraditi conquistatori. Sicché piegarli con la forza anche alla sola osservanza del precetto pasquale fu talmente complicato che ben presto l’impresa fu abbandonata. Dopo una prima raffica di scomuniche, avviata nel 1636 da un curato zelante, l’isola fu risparmiata dallo stillicidio di provvedimenti punitivi adottati a lungo in quasi tutta la diocesi. Nel frattempo, però, anche a Procida si stavano aprendo spazi crescente i confessori, sia pure entro limiti ben precisi. Il terreno più favorevole su cui cominciarono ad operare, non senza contrasti, fu quello dell’avvicinamento alla morte.
È indicativo il caso di Francesco Antonio Ciardullo, il primo curato forestiero capace di resistere a lungo (dal 1608 al 1632) in un ambiente ostile. Toccò a lui, ad esempio, fronteggiare la nascita del Monte dei marinai e della sua Chiesa di Stato, iniziative apertamente polemiche nei confronti delle autorità diocesane e del clero ad esse fedele. Fu ancora lui, ad esempio, a governare con abilità la coscienza di Prudenza Scotto di Luzio, una penitente ‘speciale’, gravemente malata. Si trattava di una imprenditrice senza figli, attorniata da parenti attirati dalla sua ricchezza. Uno di essi, un facoltoso speziale, in occasione di una delle ultime confessioni della donna, aveva raccomandato al curato di utilizzare l’occasione per convincerla a sbloccare un credito da lui vantato nei confronti di una nipote di Prudenza. Sempre a Ciardullo, inoltre, un penitente legato alla travagliata vicenda consegnò in confessionale 12 ducati, da restituire allo stesso speziale…
È altrettanto vero, però, che avvicinarsi al capezzale di anziani vicini al trapasso non fu semplice per i confessori isolani, non diversamente da ciò che in età moderna capitò in ogni angolo d’Italia. I parenti, soprattutto quando gli ammalati erano benestanti, cercavano di tenere lontani i sacerdoti, nel timore che essi li convincessero a destinare dei lasciti alla Chiesa. Fu decisivo in qualche caso l’appoggio dei medici di Procida, nettamente contrari a contatti che potevano anche spaventare gli ammalati. Nei registri abbaziali i curati annotarono talvolta con irritazione i loro interventi, perché rischiavano di compromettere la ‘buona morte’ dei pazienti e li costringevano a corse affannose per amministrare loro l’estrema unzione.
Non meno scivoloso fu il secondo fronte su cui i confessori di età moderna si aprirono spazi, a Procida come ovunque. Mi riferisco al governo della sessualità, un terreno difficile, sia per il clero, in larga misura poco disposto a rinunciare a quelle esperienze, sia per i fedeli, altrettanto restii ad accettare modelli di comportamento estranei alle tradizioni locali. Basti qui ricordare che uno dei più intriganti processi inquisitoriali celebrati a Napoli dalle autorità diocesane negli anni ’40 del Settecento riguardò Procida. Proprio nell’isola si erano diffuse sia singolari, gravissime eresie, insegnate da un sacerdote a una conventicola di bizzoche locali, sia sacrileghe esperienze sessuali maturate in ossequio ad esse. Tuttavia, nonostante la pesantezza degli addebiti, i vertici della Chiesa napoletana decisero di ricomporre lo scandalo nel modo più riservato possibile, soprattutto attraverso confessori ‘sicuri’.