Giovanni Romeo – Un prezioso aggiornamento, che devo a un amico, il prof. Tonino Lubrano, mi consente di ritornare da un altro punto di osservazione su uno degli aspetti della storia di Procida meglio documentati per l’età moderna, quello dei fidanzamenti. I nuovi dettagli riguardano una vicenda illustrata nell’ottobre scorso su ‘Il Dispari’. Si trattava di una movimentata causa matrimoniale procidana cominciata nel 1701, a seguito di una duplice richiesta di impedimento presentata ai giudici del foro arcivescovile napoletano.
Di Annuccia Longobardo, una delle due ricorrenti, non si sapeva più nulla, dopo che il tribunale aveva dato ragione alla sua ‘avversaria’, che tra l’altro aveva sposato subito dopo il giovane conteso. Tuttavia è stato possibile verificare i passaggi cruciali della sua esistenza, dopo la causa persa, grazie alla pazienza e all’abilità di Tonino (non era semplice, soprattutto per un eventuale matrimonio della ragazza, perché negli indici dei relativi registri sono annotati solo i nomi dei maschi).
Si è accertato così che Annuccia aveva poco meno di 13 anni quando intraprese la sfortunata iniziativa legale; che riuscì a sposarsi, sia pur dopo 8 anni; che morì trentottenne, lasciando cinque figli e il marito, Michele Antonio Intartaglia, che l’anno dopo si risposò. Due dei nuovi dati sono particolarmente indicativi: il matrimonio, per niente scontato per una adolescente ‘chiacchierata’ come lei, e l’età, piuttosto precoce, nel momento in cui decise di fare ricorso ai giudici.
Se la prima circostanza indica un’evoluzione del costume importante – nel 1701 a Procida, per le isolane screditate da fidanzamenti finiti male, c’era qualche speranza di sposarsi, diversamente da ciò che capitava nel passato – la seconda segnala, al contrario, la persistenza di un’attenzione esasperata, da parte dei genitori, su scelte delicate come quelle dei matrimoni delle figlie, sin dalla loro più tenera età.
Proprio un bel caso procidano del 1548 – una bambina di 10 anni costretta a sposarsi, tra le lacrime, da uno zio ecclesiastico, è ‘salvata’ da un ricorso di altri parenti, che le fruttò tre anni dopo l’annullamento del surreale matrimonio – è una delle più precoci testimonianze di una prassi comune a Napoli e nella sua diocesi nella prima età moderna.
Né mancano a Procida, pur nel cuore di un secolo aperto a nuovi modi di vita come il Settecento, i casi di famiglie ostinate nel decidere il matrimonio delle figlie sin dalla più tenera età. Un caso del 1719 ne offre un esempio molto vivace. È Caterina Mazzella, la madre benestante di Mariangela Scotto d’Antuono, una bambina ‘sistemata’ ad appena 7 anni, a chiedere e ad ottenere, dal tribunale diocesano, di impedire l’eventuale matrimonio con altre donne del promesso sposo, il diciassettenne Michelangelo Schiano di Fabrizio.
Secondo la versione dei fatti presentata ai giudici dalla madre della bambina, il giovane, garzone nella sua masseria, aveva accettato di sposare la figlia, non appena quest’ultima avesse compiuto 12 anni. In vista del matrimonio i genitori di lei avevano fissato una dote consistente, se non spropositata: ben 500 ducati. Per rendersi conto del rilievo di quell’impegno basti pensare che nello stesso anno, a Procida, una masseria di 10.000 metri quadrati ne valeva 300.
Per Michelangelo, un orfano povero che viveva una vita grama con l’anziana nonna, era stata una svolta impensabile, che lo aveva riempito di orgoglio e di soddisfazione. Sicché se ne vantava a destra e a manca, in qualche modo incredulo per quel colpo di fortuna, ‘gloriandosi d’havere saputo fare il fatto suo d’essersi casato… con la promessa di ducati cinquecento di dote…’.
Inoltre, anche se per alcuni dei testimoni chiamati a deporre si trattava di episodi non isolati, era evidente la premura delle due famiglie per l’evento: offerte continue e ricambiate di frutta, vino, pesci, filetti di maiale, oltre che di biancheria, una forte familiarità tra Michelangelo e il papà di Mariangela (lui lo chiamava già ‘messere’, come era usuale nell’isola per i generi nei confronti dei suoceri) e, addirittura, la decisione della famiglia della bambina di ospitarlo in casa a tempo indeterminato…
Il chiacchiericcio diffuso su quella situazione un po’ atipica finì anche per insospettire il curato, che decise di intervenire. Fermò Michelangelo e gli domandò se era vero che aveva ‘pigliato per moglie’ la piccola Mariangela. Alla sua risposta affermativa si premurò di ammonirlo, nel solo modo possibile, visto che la ‘fidanzata’ era una bambina e ovviamente non poteva essere punita: ‘Avverti a non praticare perché tu sei grande, hai diecisette anni, et io ti pongo la scomunica…’.
La situazione però precipitò, forse per qualche scappatella del promesso sposo. A quel punto il blocco di ogni possibile matrimonio per il giovane da parte della Curia arcivescovile sembrò prefigurare una causa lunga e complicata, con tanto di testimoni pronti a difendere le ragioni delle controparti. Invece, per motivi sconosciuti, la battaglia legale si arrestò per quasi quattro anni. Solo dopo quella lunga pausa gli ostacoli sopravvenuti furono superati: pesarono forse sugli accordi la raggiunta maturità da parte della bambina, le pressioni delle famiglie e la mediazione del curato. La Curia revocò allora l’impedimento matrimoniale a Michelangelo e dopo qualche giorno, il 30 settembre del 1724, i due giovani si sposarono, ma con procedura d’urgenza… (probabilmente c’era anche di mezzo una gravidanza).