Giovanni Romeo – Non sappiamo molto sul numero e sulla identità dei procidani residenti a Napoli in età moderna. Per il Cinquecento, ad esempio, le fonti sono piuttosto avare. C’è davvero poco: essenzialmente rapporti quotidiani legati alla pesca e problemi giudiziari del clero locale, soprattutto di natura civile. È molto probabile, peraltro, che essi fossero più numerosi in città rispetto ai capresi e agli ischitani.
Questi ultimi, ad esempio, nei confronti degli abitanti di Procida, pagavano un prezzo piuttosto alto alla maggiore distanza dalla capitale e alle notevoli difficoltà nei collegamenti, spesso interrotti a lungo, specialmente d’inverno. Non c’è confronto, infine, con i capresi, che appaiono molto di rado nelle fonti napoletane del Cinquecento, probabilmente perché erano più ‘isolati’ e più poveri rispetto agli abitanti di Ischia e Procida.
In ogni caso, i primi dati di rilievo relativi alla vita dei procidani residenti a Napoli risalgono al 1586 e provengono da un processo intentato dall’Inquisizione a una donna di 40 anni, Beatrice Castiglione, che proprio a Procida era nata. Abitava nel dedalo delle vie dei Quartieri spagnoli, dove filava, esercitava il mestiere più antico del mondo e curava le malattie con erbe e rimedi naturali, senza disdegnare la partecipazione alle cerimonie religiose.
Era però anche una delle principali esponenti di un folto gruppo di donne abituate ad andare al sabba diabolico, nei pressi del celeberrimo noce di Benevento, dove alcune di esse confessarono di arrivare volando su canne o grossi animali. Di lei non sappiamo altro, al di là di frammentari dati processuali. Le sue tracce si perdono dopo un anno e mezzo di carcere, una pesante condanna all’abiura, alla fustigazione pubblica e a un ulteriore periodo di detenzione.
Per ritrovare, dopo un caso così vistoso, cenni di rilievo ai procidani residenti a Napoli bisogna compiere un salto di circa quaranta anni. È solo nel 1623, infatti, che una breve serie di deposizioni rese ai giudici del Sant’Ufficio ci consente di inquadrare alcuni aspetti della figura di un giovane procidano residente a Napoli. Si chiamava Santolo Scotto e viveva nel popolare borgo di S. Antonio Abate con Silvia, la moglie diciannovenne, napoletana. Due anni prima, tradito dalla donna, sorpresa in intimità con un intagliatore di ventagli, Santolo aveva deciso di ‘portarla’ a Procida, dove forse pensava di controllarla meglio, ‘protetto’ dai genitori e dalla tranquillizzante barriera del mare. La proposta si era però scontrata subito con la risoluta ostilità dell’amante, forse informato dalla stessa Silvia, a sua volta decisamente restia a vivere a Procida e sostenuta a spada tratta dalla madre.
Entrambe temevano che quel trasferimento preludesse a ‘qualche male’, non meglio indicato nel verbale dell’Inquisizione, ma collegato forse alla sua condizione di forestiera. Pensarono allora che la soluzione più efficace per fermare Santolo fosse qualche fattura: solo così ritenevano possibile fargli cambiare idea.
Detto, fatto: convinsero l’amante ad accompagnarle a casa di un’anziana ‘stroppiata’, che viveva nella diffamata strada degli Incarnati. La donna diede loro dell’acqua torbida da far bere all’uomo e il giorno dopo suggerì, dopo fitti colloqui con la madre di Silvia, l’acquisto di una radica. Bisognava pestarla per ricavarne una polvere fetida, da riporre nelle scarpe di Santolo.
È indicativo, peraltro, che quest’ultimo non ebbe alcun ruolo nella denuncia, anche perché forse aveva deciso di abbandonare la moglie e di tornarsene a Procida. Non sappiamo più nulla del caso. In quegli anni, ormai, in ogni angolo d’Italia la preoccupazione degli inquisitori per quelle pratiche era calata di molto. Tranne gli addebiti particolarmente gravi, esse erano delegate al giudizio dei confessori, cui toccava il compito, non facile, di convincere i penitenti della vanità e della gravità del ricorso alla magia.
È proprio questo, tra l’altro, il contesto in cui, pochi anni dopo, Carlo, un marinaio cinquantenne di Procida, che viveva tra Napoli e Gaeta, vanamente innamorato di una giovane di Gaeta, provò in tutti i modi a conquistarla con rimedi molto simili. Li aveva avuti da una donna che viveva al Largo del Castello: polveri misteriose da far calpestare o mangiare alla ragazza, olio sul collo, una bambolina di cera da buttare tra le onde…
Nessuna di quelle operazioni funzionò, anche se Carlo, che era abbastanza informato al riguardo, un po’ se l’aspettava, se è vero che dichiarò ai giudici che nel pupazzetto non erano infilzati né aghi né spilloni… Non gli restò altro che dimenticare la donna e rivelare tutto al confessore. Né fu l’ultimo dei procidani residenti a Napoli a presentarsi dinanzi al tribunale dell’Inquisizione per denunciare debolezze di quel genere.
Era difficile per gli abitanti di un’isola ricca e orgogliosamente legata alle radici pagane dimenticare quelle e altre tradizioni locali proibite, a cominciare dai riti della vigilia di S. Giovanni, tollerati nell’isola almeno fino alla metà del Settecento. Non a caso, forse, le autorità diocesane, impegnate a Procida fin dagli inizi del Seicento in una difficile opera di evangelizzazione, decisero di concentrare i propri sforzi per quasi tutta l’età moderna sul fidanzamento e sul matrimonio, con frequenti raffiche di scomuniche, peraltro ben poco efficaci, nell’isola come in tutta la diocesi di Napoli.