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Ancora sui procidani nella Napoli del Seicento. Madama Penta, Popa e le fatture amorose

DiRedazione Procida

Dic 4, 2022

Giovanni Romeo – La curiosità suscitata in alcuni lettori dalle disavventure amorose di due procidani residenti a Napoli nel primo Seicento, illustrate su “Il Dispari” del 22 novembre scorso, mi ha spinto a rileggere appunti di anni lontani. Di vicende di vita quotidiana altrettanto vivaci, relative ad isolani ‘emigrati’ nella vicina metropoli in età moderna, ne restano in verità poche. Una però, di poco successiva al caso dello sfortunato Santolo Scotto, merita di essere ricordata.

Siamo ancora nel cuore di Napoli, non lontano da Porta Nolana e dall’Annunziata, negli anni Trenta del Seicento, a via Sopramuro. Pene d’amore e ricorso alla magia sono gli ingredienti principali di una storia vibrante, a tratti sanguigna, che matura oltre tutto tra confessori, esorcisti e inquisitori attivi, ma forse stanchi di una città da sempre ‘difficile’. In essa, in un vortice di incontri, liti, tradimenti, minacce, hanno un ruolo di primo piano due donne di Procida.

La più impegnata è la quarantenne Penta d’Alfano, che tutti chiamano madama Penta, moglie di Matteo Izzo, un capomastro isolano. Non è da meno, però, Porzia detta Popa, la loro figlia diciottenne, da tempo molto addentro nelle pratiche magiche. In quella piccola famiglia di procidani solo il papà, come buona parte dei maschi, che ovunque sono, abitualmente, soltanto vittime impaurite dei sortilegi femminili, sembra del tutto estraneo alla fitta rete di pratiche proibite intessuta dalle congiunte.

La protagonista del caso è una forestiera nota a tutti come Tolla (a Napoli diminutivo comune di Vittoria). Si tratta di una delle tante donne sfruttate dai mariti, che le spingevano a prostituirsi e vivevano dei loro guadagni (l’Italia moderna ne era piena, e in particolare le città affollate come Napoli). Anche per sopravvivere a una condizione così umiliante molte di esse si aiutavano con l’uso di un ricco armamentario magico: cercavano in quel modo di tenere a bada sia i mariti, sia i clienti/innamorati, nelle baruffe quotidiane di rapporti spesso molto complicati.

È proprio di quel tipo la prima delle accuse rivolte a Tolla. Per legare stabilmente a sé Francesco, uno scrivano palermitano con cui ha da sei anni una difficile relazione, lo ha affatturato. Lo strumento usato è un piccolo catenaccio che tiene immerso in una pentola di acqua salata. A rivelarlo all’Inquisizione è un giovane procuratore legale irpino, che abita nello stesso fabbricato dove vivono sia lei, sia Penta e Popa.

Lo fa, dice ai giudici, per scarico di coscienza, ma è difficile stabilire se fosse davvero così o se, al contrario, il giovane non volesse solo vendicare l’affronto subito dall’amico. Spesso, infatti, erano confessori zelanti ad obbligare i penitenti più scrupolosi a segnalare all’Inquisizione delitti contro la fede. Altrettanto frequente, però, soprattutto a Napoli, era il caso di chi inventava inesistenti rifiuti di assoluzione sacramentale per rendere più credibile una falsa denuncia.

Quanto all’avvocato, due cose sono certe: ha deciso di presentarsi in tribunale soprattutto perché è preoccupato per la salute di Francesco e ha avuto gran parte delle informazioni, oltre che da lui, da madama Penta, l’attivissima vicina procidana. Inoltre, per aiutare l’amico, che da tempo si ritrova impotente, accusa forti dolori e avverte come dei chiodi alle tempie, lo ha anche messo in contatto con uno dei più noti esorcisti napoletani di quegli anni. Grazie ai rimedi del sacerdote le sue sofferenze sono diminuite. L’aiuto più efficace gli era venuto però da madama Penta.

Era stata proprio lei a confidargli altri dettagli inquietanti delle attività di Tolla, insieme all’intenzione di denunciarla all’Inquisizione, dopo l’ennesimo litigio di vicinato. Penta, inoltre, si era adoperata, insieme alla figlia, per venire incontro alle richieste dell’uomo, esasperato dai persistenti malesseri. Grazie alla loro mediazione Tolla aveva accettato di ‘togliergli’ la fattura, dandogli come prova un piccolo catenaccio a forma di cuore, ‘per tenerlo quieto’.

Quando però Francesco non c’era, si burlava di lui dinanzi alle vicine, facendo al suo indirizzo ‘li casi cavalli con li gomiti’ (una bellissima, sconosciuta espressione, che forse designa quello che oggi chiamiamo il gesto dell’ombrello). Nessuno, però, aveva capito se Tolla, con quel movimento delle braccia, avesse solo scherzosamente preso in giro la paura dell’amico o, al contrario, avesse voluto far capire alle amiche che non gli aveva dato il catenaccio ‘vero’, carico di forza malefica, e che era forse pronta a preparargli un’altra fattura…

Quella denuncia non ebbe nell’immediato esiti giudiziari di rilievo. Le sole conseguenze pesanti ci furono nel caseggiato in cui vivevano, insieme al denunciante, Tolla e madama Penta. Nei quattro mesi successivi al dettagliato esposto dell’avvocato la presunta fattucchiera fuggì e non fu possibile trovarla, ma ci furono contraccolpi anche per la famigliola isolana. Quando Penta fu finalmente rintracciata e convocata dal Sant’Ufficio, dichiarò di vivere nei paraggi dell’Annunziata, non lontano dalla vecchia casa, ma fu pronta a rivelare altri aspetti della intricata vicenda… (continua).

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