Giovanni Romeo – La vicenda presentata domenica scorsa su “Il Dispari” – le fatture amorose operate da Tolla, una delle tante donne sposate che nella Napoli del Seicento facevano la vita – non sarebbe stata la stessa senza gli intrighi di due vicine originarie di Procida, madre e figlia. Rintracciate a fatica dai giudici, Madama Penta e Popa – così si chiamavano – non ebbero difficoltà a rivelare loro altri dettagli del caso.
Cominciò la madre, dichiarando che le tensioni si erano aggravate con il netto peggioramento dei disturbi accusati da tempo da Francesco, il cliente/amante più legato a Tolla. Anche lei confermò che l’uomo, oltre ad avvertire dolori ai reni e a sentire come dei chiodi nelle tempie, non riusciva più ad avere rapporti sessuali: l’impotenza, come tanti altri disturbi in cui l’emotività aveva un ruolo cruciale, era a quei tempi un malanno sottratto spesso alla valutazione dei medici e affidato un po’ ai rimedi spirituali, un po’ alle mani esperte delle donne.
Non a caso, a quel punto, Francesco aveva chiesto proprio a madama Penta di fissargli un appuntamento con Tolla, la donna amata. Costei, però, aveva negato risolutamente ogni responsabilità, anche se cercò di acquietarlo, provvedendo a fargli consegnare un piccolo catenaccio sotterrato. A lui fu anche indicato il nome della ‘vera’ autrice della fattura…Allora, su richiesta dell’uomo, oltremodo inquieto e nervoso, madama Penta lo accompagnò a casa della donna, ma costei negò sdegnata ogni responsabilità (era una medica, replicò, non una fattucchiera).
Le indicazioni più ricche arrivarono però ai giudici da Popa, la figlia diciottenne di Penta e del capomastro. Le sue informazioni portarono alla luce in primo luogo fitti rapporti confidenziali con la principale sospettata, per giunta del tutto autonomi dal ruolo, pur centrale, della madre. Fu solo lei ad esempio, a precisare che Tolla ‘si teneva’ Francesco da sei anni e a rivelare particolari molto più gravi sul suo conto.
Secondo lei, oltre a preparare i catenacci ‘magici’, la donna invocava il diavolo e pensava di affatturare Francesco attraverso il ‘cetrangolo’ (l’arancia amara, riempita di spilloni, maleficio tra i più diffusi e temuti a Napoli e nel Napoletano, ancora oggi). Popa, forte di un’età in cui a quel tempo si era pronte per il matrimonio, sospettava inoltre che Tolla avesse affatturato anche lei, per gelosia.
Raccontò infatti che, a seguito dell’ennesimo litigio, si era dovuta mettere a letto per quattro mesi: un gonfiore sospetto le aveva ‘intorzato’ una gamba e le sue condizioni di salute non erano per niente buone. Le era bastato però far pace con lei per ritrovarsi sana come un pesce, senza utilizzare alcun rimedio.
Aggiunse poi che Tolla le aveva mostrato una calamita, utile per farsi voler bene, e che le aveva anche confidato un altro dettaglio, non proprio irrilevante, in quel secolo, per tanti inquisitori e per tanti giudici europei, laici o ecclesiastici, viste le loro diffuse ossessioni per il patto delle donne col diavolo: aveva imparato a scrivere col sangue estratto da un dito una lettera all’uomo che l’aveva tradita, per legarlo indissolubilmente a sé.
Quel dettaglio, però, non impressionò più di tanto i giudici della Curia arcivescovile. Servirono a poco anche le informazioni raccolte nel corso delle due deposizioni finali, che pure confermarono e arricchirono il quadro relativo al ruolo di primo piano avuto nella vicenda dalle due isolane. Le rese Francesco, la vittima designata, lo scrivano snervato da quasi un anno di malesseri misteriosi, refrattari alle cure e agli esorcismi.
Egli ribadì che nella fase iniziale dei disturbi li aveva attribuiti all’eccesso di lavoro. Inoltre, come a sottolineare la sua superiorità rispetto a pratiche così ignobili, dichiarò che a quelle cose non aveva mai prestato attenzione. Anche quando l’amico con cui si era confidato gli aveva detto che Tolla aveva spiattellato a destra e manca la notizia dell’avvenuto affatturamento, aveva ribattuto che non credeva all’efficacia di quelle manovre.
Quando però aveva saputo che tra gli effetti del maleficio ci poteva essere anche l’impotenza, si era ricreduto: tra i suoi disturbi era proprio quello il più serio… Gli venne anche in mente che già a Palermo gli era capitata una disavventura simile. A quel punto, memore di come aveva rimediato a quel brutto ‘incidente’, aveva chiesto a madama Penta l’appuntamento con Tolla. E ci era andato carico di rabbia, deciso a sfidare la vecchia amante.
Così, non appena la donna negò qualsiasi responsabilità, oltre a ricordarle il possibile castigo del Signore (‘avrebbe potuto pagare appresso Dio’), minacciò di sfregiarla (‘l’haveria tagliato la faccie’), con il gesto brutale che nella Napoli moderna segnava il passaggio dalla condizione di donna onorata a quella di meretrice.
Lo sfogo di Francesco, così come la sua successiva deposizione, non ottenne alcun risultato: Tolla rimase uccel di bosco. Da tempo ormai l’Inquisizione, non soltanto a Napoli, su quel versante combinava poco: accumulava migliaia e migliaia di incartamenti, destinati soltanto, quasi sempre, a riempirsi di polvere. Fu così che a Procida, come in ogni angolo della penisola, le pratiche magiche continuarono a prosperare a lungo, pressoché indisturbate. Non mancheranno perciò le occasioni per illustrare vicende non dissimili da quelle delle due intraprendenti isolane.