Eliana De Sanctis – Il 25 novembre è la data internazionalmente dedicata all’abominio della violenza di genere e al ricordo delle sue vittime. Protagonista ne è il rosso vivo del sangue e delle rose recise che esplode su un fondo nero di silenzio e morte. Diventa così allegoria di un preciso messaggio sociale che denuncia la sopraffazione del maschio-bestia sulla donna: una coppia di termini non scelta a caso ma finalizzata a salvare la purezza femminile sulla brutalità maschile.
A innescare il meccanismo possessivo dell’uomo verso la donna sarebbe la possibilità che ha lui di pensare lei come un oggetto. L’immagine di donna-oggetto deve tutta la sua forza a un preconcetto presente nell’inconscio collettivo per cui lei è il suo corpo.
Tanto desiderato quanto evitato, ricercato e poi trasfigurato come strada verso l’anima, il corpo femminile, se da un lato è l’elemento che attrae e inquieta l’uomo di tutte le epoche, dall’altro rappresenta lo strumento di lotta e affermazione della donna nel suo stare al mondo.
Ma trovare riconosciuto il diritto alla libertà a mostrarlo, a (s)vestirlo, richiama l’idea (maschile) che il corpo può essere pensato esclusivamente nella sua funzione sessuale. Il curarlo, l’agghindarlo, lo (s)vestirlo contengono un costante richiamo alla provocazione erotica che si dichiara invece di voler condannare.
Un atteggiamento che non ha quasi più nulla a che fare con il diritto alla libertà, ma rivela il complesso arcaico del corpo come peccato, come “gabbia dell’anima”. Una definizione che parte dall’antichissimo Oriente e risale la Storia portando con sé l’idea che esso sia una prigione da cui liberarsi. Immagine che dovrebbe quasi far sorridere oggi, nell’epoca dell’estetica e dell’apparire compulsivo in cui il corpo, per rimandare a un filosofo francese recentemente scomparso, Jean Luc Nancy, è l’unico luogo saggio in cui l’uomo contemporaneo può vivere.
Eppure sembra non essere così: pur essendo immersi in una realtà iper-sensoriale non riusciamo ancora a costruire con il corpo un legame sano, riconoscendogli la nobile funzione di essere il nostro mediatore con il mondo, l’attributo che ci rende degli individui distinti e compiuti e che ci permette di essere.
Per farla semplice, più che mostrarci evoluti e capaci di spezzare i pregiudizi del passato, ci limitiamo a rovesciarne i crismi: un tempo si mortificava il corpo per non essere-desiderati, oggi lo si ostenta per non essere-desiderati.
Ma qualcuno ha mai letto da qualche parte che avere un corpo significa in automatico essere- desiderati?
Chiaramente no, eppure ci viene da rispondere di sì addossando spesso la responsabilità alla religione e al suo indottrinamento. Se si andasse più a fondo si scoprirebbe però una verità spiazzante: nella Bibbia il concetto di anima neppure esiste; per essa è il corpo l’elemento sacro nel quale spira la grazia di Dio. È il corpo che si addormenterà nella morte e si risveglierà, trasformato, nella dimensione eterna.
Il corpo è un qualcosa che va ben oltre il semplice essere-desiderati. È bellezza, dolcezza, sacralità, eternità. Comprendere ciò significa gettare le basi per una rinnovata lotta civile che non mirerebbe solo a “proteggere” la vittima ma soprattutto a liberarla. Nell’ossessivo rimando al corpo come carne non è solo l’uomo che oggettivizza la donna, ma lei che oggettivizza se stessa, riducendo (inconsciamente, è ovvio!) la propria lotta al diritto di suscitare desiderio senza avere l’obbligo di soddisfarlo. La grande conquista starebbe nel far pace con l’ancestrale senso di colpa di essere la tentatrice e nel riappropriarsi del proprio corpo come luogo candido in cui vivere, sentire, godere, essere. Perché, in ultima battuta, avere un corpo non significa essere-desiderati bensì essere, semplicemente.