Giovanni Romeo – Gli lavava la biancheria e gli riassettava il letto, qualche volta gli faceva anche da mangiare. Nel 1751 Lucia Mazzella, una diciassettenne procidana orfana di padre, forse a disagio nella convivenza con la madre, che si era risposata tre volte, tirava a campare anche così.
Andrea Mainardi, un chirurgo toscano ventottenne che a sua volta si guadagnava da vivere nell’isola da alcuni anni, le aveva affidato quelle mansioni per comodità, trattandosi di una vicina (l’intricata vicenda sentimentale che di lì a poco lo avrebbe trascinato dinanzi ai giudici della Curia arcivescovile di Napoli si svolge nel cuore antico di Procida, nel circondario di S. Maria delle Grazie).
Piano piano, però, qualcosa era cambiato nelle loro relazioni. Secondo alcune donne del quartiere, tra i due c’erano stati prima inequivocabili segnali d’attenzione, poi gli sponsali. Lucia e Andrea si erano scambiati la promessa di matrimonio in presenza di persone amiche, non dinanzi alla Chiesa, secondo una prassi tradizionale nell’isola. Solo a quel punto, in linea con un modello di fidanzamento molto diffuso nell’Italia moderna, tra i due c’erano stati rapporti sessuali (o almeno così si diceva in giro).
Proprio allora, secondo i primi testimoni, il giovane aveva cominciato ad insistere con la madre della ragazza per accelerare il matrimonio. Si diceva in giro che ne avesse anche accennato al predicatore quaresimale. Si osservava inoltre, come prova delle sue buone intenzioni, che aveva regalato a Lucia pantofole ricamate, fazzoletti di seta e altri doni di pregio.
Un’ulteriore garanzia di affidabilità era venuta però, secondo il legale della ragazza, dall’acquisto da parte di Andrea della tela occorrente per preparare la biancheria necessaria per il matrimonio. Insomma, malgrado il dislivello tra le condizioni economiche dei due promessi sposi, il giovane forestiero aveva fatto il possibile per mettere a proprio agio la fidanzata.
In quegli sviluppi si era inserita subito la famiglia di Lucia: la madre Cecilia, lo zio del patrigno, un sacerdote molto attivo e intrigante, e lo stesso patrigno. I tre si erano dati da fare in ogni modo per convincere il forestiero ad accelerare i tempi di un matrimonio benvoluto, ritenuto forse un buon affare. Secondo la versione dei fatti presentata in giudizio a nome della ragazza, Andrea aveva accolto inizialmente di buon grado manovre così insistenti, ma poi aveva cambiato idea. Solo allora, ai primi di febbraio del 1752, era scattata l’azione legale.
La prima mossa dell’avvocato di Lucia fu quella di far esaminare con inconsueta rapidità quattro isolani alla presenza di un notaio della Curia arcivescovile. Essi non solo dichiararono di aver assistito agli sponsali, ma aggiunsero che non erano i soli. Molti loro conoscenti, impossibilitati a venire a Napoli, avrebbero potuto deporre al riguardo a Procida, dinanzi al vicario foraneo.
Non fu da meno però il giovane toscano. Nominò un legale esperto, che, oltre ad eccepire la nullità dei presunti sponsali, presentò subito in tribunale la copia di un atto notarile del 1747. Dinanzi al professionista, pochi giorni prima che Lucia compisse 13 anni, la madre e il patrigno avevano offerto formalmente a un bottegaio, in vista del matrimonio con la figlia, una dote – per niente disprezzabile – di 150 ducati, provenienti in buona parte dalle rendite di doti garantite alla madre dal Monte dei marinai. Entrambi i mariti, defunti, erano stati ‘benefattori’, come nel linguaggio locale erano qualificati allora i marinai iscritti alla potente associazione.
A raccontare la vera storia della sua presunta relazione ci pensò poi il chirurgo, ascoltato in Curia nell’aprile del 1752. Viveva a Procida – dichiarò – dal 1747, ma la sua esistenza si era incrociata con quella di Lucia solo pochi mesi prima, da quando si era trasferito nella zona della Madonna delle Grazie.
Proprio allora Cecilia, la madre della ragazza, aveva cominciato a pressarlo, prima per convincerlo ad affidare a Lucia l’incarico di servirlo, poi per proporgli di sposare la figlia. Lui però si era schermito, dicendo che non era per niente sicuro di rimanere a Procida, soprattutto per ragioni di lavoro. Guadagnava poco nell’isola e se gli fosse capitata una buona occasione a Napoli o altrove, se ne sarebbe andato.
Inoltre, a suo dire, i particolari compromettenti segnalati nell’esposto erano falsi. La seta ad esempio l’aveva comprata a Napoli, ma per sé, per farsi cucire della biancheria, non in funzione del corredo per la futura sposa. Quanto alle pantofole, poi, erano destinate al patrigno, che si era mostrato gentile nei suoi confronti, non a Lucia. Andrea ebbe anche molto da ridire sulla invadenza di Cecilia. Si era addirittura procurata una chiave della sua abitazione e aveva approfittato di una infermità che lo aveva costretto a letto per portargli via tutta la seta, col pretesto che si sarebbe rovinata, senza mai restituirgliela…
La trovata più maliziosa era stata però quella dello zio di Lucia, l’intraprendente sacerdote. Con la scusa che aveva bisogno, trovandosi occasionalmente nella vicina terraferma, di un prelievo di sangue, lo aveva fatto partire d’urgenza da Procida. Era tutto falso. Si trattava di una trappola, ideata solo per poter sostenere in giudizio, forte della disponibilità di falsi testimoni, che quel giorno Andrea aveva promesso ufficialmente, di fronte alla Chiesa, di sposare la nipote… (continua)