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Una complicata causa matrimoniale. A proposito di Andrea, il forestiero invischiato a Procida nel 1751

DiRedazione Procida

Dic 27, 2022

Giovanni Romeo – Hanno suscitato reazioni opposte, soprattutto tra i lettori isolani, le disavventure settecentesche di Andrea Mainardi, un chirurgo toscano venuto a Procida per svolgere il suo lavoro, illustrate domenica 18 su “Il Dispari”. L’uomo, fortemente indiziato di aver sedotto e abbandonato Lucia, una ragazza isolana, dopo averle promesso, a detta della famiglia di lei, il matrimonio, finì dinanzi ai giudici diocesani napoletani, colpito dal divieto di sposarsi.

Ad alcuni le trame che lo invischiarono sono risultate sgradevoli, se non orribili, mentre altri vi hanno ritrovato tratti familiari, ma solo nei ricordi d’infanzia, trattandosi di storie in larga misura estranee – fortunatamente – alla vita attuale. Tuttavia, per chi è abituato a confrontarsi con il passato, anche lontano, la meraviglia è relativa. Il chirurgo toscano ebbe solo la sfortuna di essere giovane in un momento di grandi trasformazioni della famiglia in Europa. Sia nei paesi rimasti fedeli alla Chiesa romana, sia in quelli dove si impose l’etica protestante, i costumi matrimoniali subirono scossoni violenti.

È senz’altro vero, però, che, tra le molte storie simili capitate in età moderna a Procida, come a Napoli e nella sua diocesi, quella di Andrea è tra le più ricche di colpi di scena. Molto dipese anche dalla inusuale provenienza del giovane: si tratta, per quanto ne so, dell’unico toscano venuto a vivere nell’isola tra il Cinque e il Settecento. Del rilievo della sua vicenda è una riprova efficace l’andamento movimentato della causa matrimoniale che gli toccò di affrontare.

L’inizio, tra l’altro, gli era stato nettamente favorevole. Il suo avvocato aveva avuto buon gioco nel documentare, grazie a una fitta rete di testimoni, la malafede di quella iniziativa. Non c’era solo la dote promessa da tempo a Nicola, un bottegaio, dai genitori di Lucia, una ragazzina che non aveva ancora compiuto 13 anni ed era allora una perfetta sconosciuta per il giovane toscano. Il fatto è che, forti di quella concessione, i due isolani avevano avuto più volte rapporti sessuali.

Inoltre, dato ancor più indicativo per i giudici ecclesiastici, la presunta promessa di matrimonio tra Lucia e Andrea, oltre che successiva alla relazione con Nicola, non era stata scambiata dinanzi al parroco e perciò per la Chiesa non aveva alcun valore. A questi elementi si erano poi aggiunti altri particolari, potenzialmente devastanti per l’iniziativa legale della ragazza.

Cecilia, la madre intrigante e onnipresente di Lucia, era una donna molto chiacchierata nell’isola. Vent’anni prima, ad esempio, era stata a lungo l’amante di un sacerdote, che tra l’altro i superiori avevano punito con severità, confinandolo a lungo a Napoli. A seguito di quella brutta storia, inoltre, era morta di crepacuore la madre di Cecilia.

Infine, una delle testimoni della presunta promessa scambiata tra Lucia e Andrea aveva confidato al confessore sia la falsità della sua deposizione, sia la circostanza che anche le altre amiche avevano mentito ai giudici. Era stata soltanto una messinscena abile, orchestrata da Cecilia e dal fratello sacerdote.

A quel punto, avvertito della gravissima novità, intervenne il vicario foraneo della Chiesa isolana, un uomo scrupoloso e severo, che un anno prima non aveva avuto difficoltà a segnalare ai superiori i disordini diffusi della processione locale del Venerdì Santo. Per poter sbrogliare l’intricata matassa, chiese il parere della Curia, che lo autorizzò ad assolvere la donna dal grave abuso.

Proprio nel corso dell’interrogatorio della falsa testimone pentita affiorò inoltre un altro tassello della sporca manovra ordita per incastrare Andrea. Si trattava, ovviamente, di dare valore a una promessa scambiata alla buona, cui i giudici diocesani non attribuivano alcun rilievo nel valutare le richieste di impedimento. Su quel particolare fu ancora una volta la spregiudicatezza dello zio sacerdote di Lucia a fornire ai testimoni un buon argomento.

Nell’isola – disse a destra e a manca – era da tempo diffuso il convincimento che solo i fidanzati più umili si recavano dal parroco per sottoscrivere alla sua presenza la promessa. Mai i giovani appartenenti al ceto civile si sarebbero ‘abbassati’ ad accettare una prassi così umiliante, che ledeva un principio basilare nei costumi isolani, quello che legava fidanzamenti e matrimoni solo alle decisioni delle famiglie. Se ne era convinto lo stesso Andrea, che ci aveva scherzato su con una vicina, abituata a curiosare sui continui scambi di tenerezze tra lui e Lucia.

Un giorno, quando gli domandò quando si sarebbero sposati, il giovane replicò allegramente: “Che più sposare di questo? E diede la mano a detta Lucia, e le disse: Lucia, accetti Andrea Mainardi per tuo marito? E Lucia gli rispose: Sissignore”. A sua volta lei disse: E tu mi accetti per moglie? E l’altro: sì.

Fu anche grazie a questo continuo chiacchiericcio che, nonostante i ripetuti rovesci incassati nella prima fase del processo, Lucia e la famiglia poterono muovere a una vigorosa controffensiva giudiziaria. Verso la fine dell’estate del 1752 numerosi altri testimoni si presentarono a Napoli per confermare attraverso particolari precisi – i doni ripetuti e preziosi di Andrea, le sue preferenze per l’abito da sposa di Lucia –che tutto era pronto per il matrimonio tra i due. Nel frattempo, però, un colpo di scena stava per cambiare radicalmente i termini della questione… (continua)

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