Giovanni Romeo – Non ebbe una conclusione la movimentata causa matrimoniale che sto illustrando da alcune settimane. Avviata nel febbraio del 1752 dinanzi ai giudici diocesani di Napoli da Lucia, una ragazza diciannovenne di Procida, contro Andrea Mainardi, un giovane e apprezzato chirurgo toscano, si arenò definitivamente il 7 settembre seguente.
Capitava non di rado, nell’enorme contenzioso diocesano riguardante i fidanzamenti e i matrimoni. L’esistenza di battaglie legali non escludeva affatto che i contatti privati tra le controparti continuassero e che finissero per aprire la strada a un accordo. Non fu questo, però, il caso di Andrea e Lucia. La vertenza avviata dinanzi ai giudici diocesani fu abbandonata per motivi completamente diversi.
Già durante le prime schermaglie, quando il fronte dei falsi testimoni raffazzonato dai familiari della ragazza si era sfaldato, questi ultimi avevano deciso di affiancare al processo di impedimento una iniziativa legale di tutt’altra natura. A dirlo ai giudici ecclesiastici era stata proprio Narda, una delle donne che avevano dichiarato falsamente di aver assistito allo scambio della promessa di matrimonio da parte dei due giovani.
Si era pentita anche lei, che pure rimaneva fermamente convinta della necessità per le isolane di mostrarsi guardinghe nei confronti dei forestieri. Preoccupata forse per la sua coscienza e per l’adempimento del precetto pasquale, intendeva rivelare al confessore il suo errore. A dissuaderla però era stata Cecilia, la madre di Lucia.
L’aveva pregata di pazientare, ma solo per poco, per darle il tempo che una nuova denuncia, presentata a Napoli, nella Vicaria criminale, il più autorevole tribunale penale del Viceregno, producesse i primi effetti. L’obiettivo era semplice: utilizzare un’arma molto più potente, quella dell’accusa di stupro (che peraltro in antico regime era legata alla verginità della donna, non alla violenza) e di procurato aborto. Grazie ad essa sarebbe stato semplice ottenere dai giudici di Stato la carcerazione di Andrea.
Una volta che fosse finito dietro le sbarre con quella pesante imputazione, difficilmente il giovane chirurgo sarebbe tornato in libertà, se non avesse sposato la ragazza da lui ‘disonorata’. Fino al raggiungimento di quel risultato, però, la causa di impedimento matrimoniale avviata nella Curia arcivescovile sarebbe stata regolarmente coltivata: non si poteva escludere, ovviamente, che la nuova iniziativa fallisse.
Oltre tutto, mantenerla viva avrebbe garantito a Lucia e alla sua famiglia una tutela ben precisa. Grazie ad essa Andrea, libero o detenuto, non poteva giocare brutti scherzi, quantomeno a Procida e nella diocesi di Napoli: nessun parroco, in base all’istanza di impedimento e al decreto di urgenza della Curia che l’aveva recepita, avrebbe mai potuto unire in matrimonio il giovane con qualsiasi altra donna.
Inoltre, nello stesso giorno in cui interrogarono Narda, il 21 agosto 1752, i giudici diocesani ebbero una seconda e più dettagliata conferma delle manovre in corso in Vicaria. Ascoltarono la deposizione di Anna Maria, un’altra delle false testimoni, più giovane e ancor più preoccupata dell’amica per le conseguenze del suo errore. Sapeva di trovarsi tra l’incudine e il martello. Mentre alcuni conoscenti, al corrente dell’imbroglio e forse decisi ad aiutare Andrea, le chiedevano con insistenza se si era confessata o no, la madre della ragazza aveva già provveduto a minacciare e a far picchiare dal marito una delle donne che aveva ritrattato…
Anna Maria, allora, non contenta dell’assoluzione rimediata a fatica a Procida, che pure le era valsa la possibilità di comunicarsi a Pasqua, aveva deciso di consultare un confessore napoletano. Questi però le aveva suggerito di non scherzare col fuoco con le false deposizioni: avrebbe rischiato di compiere un vero e proprio sacrilegio. A quel punto lei, preoccupata, decise di vuotare il sacco, rivelando ai giudici di aver detto il falso sulla inesistente promessa di matrimonio anche nella seconda causa, quella avviata in Vicaria.
Sfortunatamente gli atti del processo di stupro intentato al giovane toscano non si sono conservati, ma è verosimile che egli fosse finito in carcere poco dopo il 7 settembre del 1752, data cui risale l’ultimo atto della procedura avviata nel foro arcivescovile.
Sappiamo però con precisione come e quando il caso si sbloccò definitivamente. Passarono parecchi mesi. Il 23 maggio del 1753, nella cappella delle carceri della Vicaria, fu il parroco competente per territorio, quella di S. Tommaso a Capuana, a unire in matrimonio il detenuto Andrea Mainardi e la giovanissima Lucia Mazzella. L’attestato fu trasmesso al curato di Procida, che lo trascrisse nel registro dei matrimoni.
Da allora la vita della nuova coppia, costituitasi in modo così rocambolesco, si snodò nell’isola. Ne conosciamo solo i pochi dati ricavabili dai registri parrocchiali: essenzialmente le nascite dei figli – tanti, come era abituale nell’Europa di quei secoli – e le date di morte dei genitori. Allo sfortunato Andrea l’esperienza isolana non fu propizia: se lo portò a via a 52 anni nel dicembre del 1772 ‘un accidente improviso’, che gli impedì di ricevere i sacramenti (150 anni prima ci sarebbero stati anche problemi per seppellirlo). Lucia invece morì a 80 anni nel maggio del 1815, ben assistita spiritualmente. Sembra anche che qualcuno dei loro eredi viva tuttora nell’isola.