Eliana De Sanctis – «Se a un Dio si deve questo mondo, non ci terrei ad essere quel Dio. L’infelicità che vi regna mi strazierebbe il cuore». Così scriveva il celebre filosofo Arthur Schopenhauer in Parerga e Paralipomena (1851), raccogliendo forse il sentire di tutti quegli uomini posti di fronte a una sciagura improvvisa e inspiegabile.
È in effetti ai postumi di esperienze tragiche che l’essere umano sembra accorgersi dei paradossi dell’esistenza, tanto da perdersi in una serie infinita di domande che riecheggiano in un unico, disperato afflato: perché?
Si tratta dell’interrogativo in assoluto più difficile per noi; con i nostri mezzi scientifici sappiamo dire quando un fenomeno avviene, dove e anche in che maniera. Talvolta riusciamo a ricostruirne le cause materiali. Sfugge però la risposta al suo motivo, alla ragione recondita e provvidenziale che lo ha voluto come accadimento.
Il perché è la domanda più metafisica che abbiamo, quella che muove il mondo; è in sua grazia che partono tutte le scienze, gli ammodernamenti, il progresso. Ma è anche il mistero che misura la nostra finitezza, che ci riconduce in quel circuito chiuso oltre cui non possiamo guardare: la nostra esistenza.
Ex-sistere in latino significa “stare fuori da”, presupponendo già etimologicamente l’idea del distacco: esistiamo in virtù di un altrove nel quale non siamo più e nel quale (forse) ritorneremo.
Nella sua vita felice l’uomo poco si preoccupa del senso della propria esistenza; se ne ricorda invece in prossimità della morte e vorrebbe in un batter d’occhio trovare tutte le risposte, catalizzare la propria sofferenza in un’inquadratura razionale che possa donarle ordine e senso.
Il più famoso e spregiudicato intellettuale contemporaneo, Fëdor Dostoevskij, che nei suoi Fratelli Karamazov (1880) si domandava quanta giustizia ci fosse nel dolore patito dai bambini, non rappresenta che la punta dell’iceberg di quel tortuoso filone di pensiero che si è ribellato al Dio dogmatico della tradizione giudaico-cristiana, di cui bisogna fare la volontà senza potersi chiedere: perché?
Già domandarsi il perché è allora una ribellione, una mancata accettazione del destino; a partire da esso possiamo intraprendere sentieri, pontificare discorsi, confrontarci con le umane imperfezioni e tentare, per ogni strada imboccata, di arrivare a una piccola soluzione.
L’uomo ha a disposizione uno svariato ventaglio di discipline attraverso cui fare luce e ottenere la propria giustizia, quali la scienza, la giurisprudenza, la politica.
Tuttavia nutrirà sempre la sensazione di non essere o fare abbastanza, come se ci fosse qualcosa su cui non riesce ad esercitare un controllo, che gli sfugge continuamente. E se per molti questa incapacità di avere una visione totale resta allo stadio di una fastidiosa inquietudine, il filosofo sa benissimo che nome conferirle: finitudine.
L’essere umano si sente vocato da sempre alla grande missione del dominio universale, animato dal piacere ardente di superare i limiti. Ambizione che spesso gli fa dimenticare ciò che è, ossia una creatura finita posta nel qui e nell’ora (hic et nunc, diceva S. Agostino), in un tempo definito che si chiama esistenza.
Divorato da un eccessivo protagonismo, ha dimenticato di essere imperfetto. Di non poter stendere la propria ala su tutto il creato, di non poter sottomettere le forze naturali alla propria volontà o di impedire l’accadimento di eventi dolorosi e spiacevoli.
Può irrompere nella storia con il suo tonante perché, imparando tuttavia che rispondervi non sarà sempre possibile; può edificare le proprie fragili difese, accettando che potrebbero non bastare a salvarlo.
Può ripensare alla bellezza della propria imperfezione, al diritto che ha di sbagliare, di ricredersi, di ritentare.
Può comprendere che stare al mondo significa stare accanto, agli altri uomini e alle altre creature.
Una visione lirica che immortala questo ambiguo gioco di contrasti è contenuta negli ultimi capitoli del Libro di Giobbe, dove al legittimo rancore del protagonista viene contrapposta la grandezza dei piani di Dio, e che Giobbe non aveva compreso perché aveva dimenticato ciò che era: un uomo piccolissimo in un universo complesso e immenso.