Giovanni Romeo – Tra le tante cose da cui la barriera del mare non ha difeso gli abitanti di Procida c’era anche la presenza dei chierici selvaggi, una eredità tra le più sgradevoli dell’età della Controriforma. L’espressione ha bisogno di un chiarimento, visto che da tempo alcuni dei privilegi più odiosi riconosciuti al clero sono scomparsi o sono stati in larga misura ridimensionati.
Sono noti come chierici selvaggi i giovani che iniziavano il lungo percorso formativo previsto per diventare sacerdoti non per completarlo, ma solo per godere delle condizioni di favore riconosciute a tutti gli ecclesiastici, anche al più sprovveduto diacono. Si trattava essenzialmente di immunità fiscali e del diritto di essere giudicati dai competenti e accomodanti tribunali ecclesiastici, sia per i crimini comuni, sia per le questioni civili.
L’Italia meridionale, per motivi che meriterebbero ricerche approfondite, fu il regno incontrastato dei chierici selvaggi, e non solo nelle aree interne, dove pullulavano ed erano dediti non di rado anche al brigantaggio. Napoli, ad esempio, fu insanguinata spesso dai loro delitti (uno dei più feroci omicidi a me noti nell’Italia moderna vi fu perpetrato nel 1577 nei pressi della chiesa di S. Maria della Carità da uno di essi: infieriva a coltellate sulla vittima in fin di vita ed era ‘come se abbattesse lardo’, racconta uno dei testimoni inorriditi).
A Procida i dati per ora noti sono meno impressionanti, ma segnalano pur sempre che per tutta l’età moderna i confini tra laici ed ecclesiastici furono labili. Un caso capitato nel 1631 è indicativo. Il vicario foraneo di Procida aveva invitato spesso Girolamo Scotto Lavina, un chierico per modo di dire, noto a tutti come l’abate Ciommo (‘abate’ era il titolo dato abitualmente a Napoli ai chierici selvaggi, non si sa perché), a lasciare Angela, la giovane vedova con cui aveva da molti anni una relazione.
Non c’era stato niente da fare. Girolamo, un agiato quarantenne locale, che viveva di solito a Napoli, ma veniva spesso a Procida, per amministrare i molti suoi beni e per intrattenersi con l’amica, non aveva alcuna intenzione di lasciarla. A quel punto, persa la pazienza, il vicario chiese aiuto ai superiori e si accordò con due guardie dell’arcivescovo di Napoli di ritorno da Ischia per aiutarlo a catturare la coppia.
Erano i primi di agosto, e i due furono subito scoperti in un giardino: lei finì in prigione nell’isola, sotto il controllo del capitano di Procida, mentre lui fu trasferito a Napoli, nelle carceri della Curia arcivescovile. Lì la sua disavventura seguì una trafila consueta per i giudici ecclesiastici.
Il controllo della fedina penale non fu particolarmente favorevole all’abate Ciommo. Non era uno stinco di santo. Nel 1623 era stato denunciato per aver minacciato con una spada un uomo, ma se l’era cavata subito grazie alla remissione di querela da parte della vittima; l’anno dopo, processato per una sanguinosa aggressione, era stato condannato a 3 anni di esilio da Napoli e diocesi.
Malgrado quei precedenti, il tribunale della Curia arcivescovile si mostrò benevolo. Quando, dopo meno di due mesi di detenzione, l’uomo chiese una ‘tollerabile composizione’, il vicario generale accolse l’istanza, imponendogli una multa di 6 ducati – una somma non particolarmente alta per un benestante come lui – alla sola condizione che interrompesse la relazione con Angela. In caso di trasgressione, avrebbe dovuto pagare 25 onze d’oro: una multa salatissima.
L’abate Ciommo accettò e ovviamente riprese senza esitazione la vita di sempre. Ma aveva fatto male i conti con il vicario foraneo. Il 1 aprile seguente, in una serata di luna piena, la ronda del capitano di Procida, allertata dall’ecclesiastico, sorprese la coppia a letto e non esitò ad incarcerarla. La rapida indagine e la paura della multa bastarono ad intimorire il disinvolto chierico: un paio di mesi dopo convolò a giuste nozze con Angela nella chiesa abbaziale…
Solo in parte diverso fu l’esito di un caso capitato a Procida a un altro chierico selvaggio nella primavera del 1641. Si stava discutendo in pubblico della dolorosa vicenda di un isolano ferito a Napoli e morto in barca, mentre lo trasferivano a Procida. Uno scrivano, un napoletano residente nell’isola, sosteneva che un’imbarcazione ‘quando portava un corpo morto sopra non faceva camino’: per quanto ne so, un’opinione davvero singolare, se non unica.
Era intervenuto allora un chierico, Carlo Scotto, e gli aveva detto, forse in modo pesante e offensivo, che stava dicendo sciocchezze. L’altro gli aveva risposto, alterato: ‘Chiavami sto naso in c…’ e i presenti avevano dovuto dividere i due, che stavano per venire alle mani. Sembrava tutto chiuso, ma di lì a poco Carlo era tornato con una mazza, ingiuriando e colpendo lo scrivano. Il capitano e un suo aiutante lo avevano però immobilizzato a terra, minacciandolo con un pugnale alla gola…
Si era materializzato allora anche lo scrivano del vicario foraneo, che aveva preteso la consegna del chierico, in quanto ecclesiastico, sostenuto a gran voce dall’interessato, che da terra gridava: “Chiamatime il mio superiore, perché se ho fatto male lui mi castigarà’. Ebbe ragione, ovviamente: consegnato al vicario foraneo e trasferito a Napoli, nel carcere arcivescovile, ottenne la remissione di querela e se la cavò anche lui in meno di due mesi con una multa di sei ducati. Proprio come l’abate Ciommo.