Giovanni Romeo – Fu solo nella seconda metà del ’500 che la Chiesa romana cercò di applicare sistematicamente, soprattutto in Italia, una norma da sempre trascurata, quella che nel 1215 aveva reso obbligatorie per tutti i cristiani la confessione annuale al proprio parroco e la comunione in parrocchia a Pasqua.
Si trattò di un’impresa ciclopica: i fedeli amavano poco confessarsi, in particolare ai curati, spesso malvisti e sospettati di non rispettare il segreto cui erano inviolabilmente vincolati, come gli altri confessori. Solo i giubilei – i brevi intervalli di tempo in cui la grazia prevaleva sulla giustizia – avvicinavano a quel sacramento un po’ tutti.
Quando però il rispetto di quella regola era largamente disatteso, si passava alle misure forti. Un buon esempio viene da Napoli e dalla sua popolosa diocesi, teatro per almeno 150 anni, tra il primo Seicento e il tardo Settecento, di una doppia sequenza di interventi. Prima si minacciava la scomunica alle persone o alle famiglie inadempienti, anche con manifesti affissi alle porte di casa. Poi, se gli interessati non avessero regolarizzato la propria posizione entro pochi giorni, sarebbero stati interdetti dall’ingresso in chiesa e in caso di morte privati della sepoltura ecclesiastica.
I risultati di un impegno così deciso furono però piuttosto modesti. Una parte dei destinatari delle punizioni reagì in modo plateale (a Napoli ad esempio prese piede presto tra le donne una definizione icastica di quelle manovre: non facevano paura a nessuno, erano fuochi di paglia, solo scomuniche di f.); altri scelsero la strada dell’imbroglio (la compravendita di attestati di confessione e comunione di seconda mano, riscritti col proprio nome), altri ancora soluzioni intermedie (era il caso dei conviventi che si separavano per un po’, per poter essere assolti e comunicati, prima di riprendere la coabitazione proibita).
Non mancarono infine – un segmento stabile, sostanzialmente intoccabile, dei fedeli – coloro che ignorarono del tutto quelle decisioni. Per queste reazioni sembra esemplare la situazione di Arzano: ancora verso la fine del Settecento i suoi parroci riferiscono con amarezza ai superiori che gli scomunicati ‘fanno il sordo’ o che ‘dormono placidamente’.
Il caso della Chiesa di Procida fa un po’ storia a sé. Nel controllo dell’adempimento del precetto pasquale non c’è la stessa continuità nel tempo che caratterizza l’impegno della Curia arcivescovile in tutta la diocesi. La limitata attenzione delle autorità ecclesiastiche napoletane per quel problema è uno dei tanti riflessi della difficoltà di governare spiritualmente l’isola.
Gli arcivescovi non volevano esasperare una comunità costretta controvoglia ad appartenere a una diocesi. Sapevano bene che Procida aveva goduto fino ai primi del Seicento della notevole libertà di comportamento assicurata dalla diretta dipendenza della sua Chiesa da Roma e che i suoi abitanti erano attaccati visceralmente alle proprie tradizioni. Perciò controllare il regolare adempimento del precetto pasquale fu un’impresa tentata da pochi curati.
Uno solo ci provò sul serio, ma ben presto ci rinunciò. Mi riferisco a don Giovanni Antonio de Jorio, membro di una delle più note e potenti famiglie isolane, approdato alla carica di curato nel 1632, ad appena 25 anni. Negli undici anni in cui guidò la Chiesa isolana si segnalò soprattutto per lo zelo inconsueto manifestato nel contrastare gli abusi di ogni genere, dalle convivenze proibite alle pratiche magiche.
Non gli sfuggì perciò la diffusa inadempienza del precetto pasquale. Un primo mandato della Curia, ovviamente susseguente a una sua nota, fu intimato il 7 luglio 1636 a 13 persone (tra cui tre donne), anche se la notifica fu molto lenta e laboriosa: solo il 24 agosto seguente il notaio del vicariato foraneo poté attestare che si era conclusa.
A questi ostacoli, legati forse sia alla novità dell’iniziativa, sia alla scarsa collaborazione del clero locale, si aggiunsero le difficoltà legate al controllo dei marinai e delle loro vite movimentate e agli scrupoli del giovane curato. Egli cercava in tutti i modi di convincere gli inadempienti a rispettare il precetto, per evitare loro le punizioni infamanti previste per chi non si piegava all’obbligo.
Alla fine, il bilancio di quella battaglia non fu molto lusinghiero, soprattutto fra i maschi. Dei 55 trasgressori raggiunti dall’intimazione obbedirono solo in 36; per gli altri 19 scattarono il divieto di entrare in chiesa e la privazione della sepoltura ecclesiastica. Andò solo un po’ meglio con le undici donne diffidate: solo tre rifiutarono di osservare il precetto pasquale.
È comprensibile perciò che dopo quella inutile scaramuccia i curati isolani abbiano evitato accuratamente di sollecitare provvedimenti di quel tipo, che pure continuarono a Napoli e in diocesi fin verso la fine del Settecento, anche se stancamente. Di gatte da pelare a Procida ce n’erano già abbastanza, come mostrò alla fine del Seicento il clamoroso gesto dell’arcivescovo Cantelmo di scomunicare in blocco tutti i conviventi dell’isola. Neppure così, però, si raggiunsero risultati di rilievo.
Ci voleva ben altro per evangelizzare quell’isola, come verificò nel 1742 un prelato accorto come Giuseppe Spinelli: la sua visita pastorale a Procida si tramutò – per l’unica volta nella diocesi, nella plurisecolare storia di quei controlli – in un soggiorno continuo, lungo addirittura un mese.