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Fidanzarsi a Procida nel primo Settecento. Il vecchio e il nuovo in un’isola ricca e spregiudicata

DiRedazione Procida

Feb 18, 2023

Giovanni Romeo – Per quasi due secoli, dagli inizi del Seicento fin verso la fine del Settecento, una delle preoccupazioni principali degli arcivescovi di Napoli fu quella di combattere a colpi di scomuniche il modello di fidanzamento più diffuso nella diocesi. Esso poggiava sull’egemonia delle famiglie dei due partner e prevedeva abitualmente intese matrimoniali sancite dinanzi al notaio o ad amici, cui faceva seguito la convivenza della futura coppia, spesso allietata dalla nascita di figli.

Quest’ultimo particolare non era secondario. Era molto diffusa infatti, e in tutta Europa, la paura che persone malevole o legate ad ex fidanzati vendicativi usassero le arti magiche per bloccare lo sposo nella fatidica prima notte. A quei timori si aggiungevano spesso, tra i motivi di ritardo dei matrimoni, altre complicazioni, legate al livello di vita e alle disponibilità finanziarie degli interessati.

Nella lotta intrapresa per cancellare queste tradizioni e per affermare il modello della verginità prematrimoniale, l’impegno più gravoso delle autorità ecclesiastiche napoletane riguardò, accanto all’affollata e ingovernabile Napoli, proprio Procida. Nell’isola, che tra l’altro aveva conosciuto tra Sei e Settecento uno sviluppo demografico imponente (dai circa 2000 abitanti degli inizi del Seicento ai circa 8.000 del 1715), le resistenze furono fortissime.

Servì a poco, ad esempio, l’altalena tra raffiche di scomuniche e incentivi alle azioni legali presso la Curia, a cominciare dalla più comune: la richiesta di bloccare i matrimoni degli ex fidanzati. Nello stesso tempo, poi, il benessere crescente nell’isola e l’aumento degli scambi con i forestieri contribuirono a indebolire anche le più radicate tradizioni locali.

Ne furono la riprova i decenni successivi alla clamorosa raffica di scomuniche decisa nel 1693 dall’arcivescovo Cantelmo in visita pastorale a Procida (un’iniziativa mai adottata altrove in diocesi). La libertà di costumi dell’isola non ne risentì più di tanto, pur in una comunità in cui la pratica religiosa era più intensa rispetto agli inizi del Seicento, soprattutto tra le donne.

Un buon esempio della vivacità dei fermenti che attraversavano l’isola in quegli anni viene da una causa di impedimento matrimoniale avviata nel 1715, ma coltivata solo nel 1718. L’aveva promossa, sia in Curia arcivescovile, sia dinanzi al curato di Procida, Antoniella Lubrano di Giunno, una giovane povera e piuttosto chiacchierata.

Poco dopo aver sciolto dinanzi a un notaio gli sponsali contratti con un altro uomo, avanzò formale richiesta di impedimento matrimoniale nei confronti di Francesco Lombardo, un giovane giardiniere di Massalubrense residente dall’infanzia nell’isola. Questi, a suo dire, aveva avuto rapporti confidenziali con lei, dopo la promessa di matrimonio, ed era perciò obbligato a sposarla.

Per tre anni l’istanza non ebbe seguito, come capitava spesso. In quei casi, se le ricorrenti non coltivavano la causa, i giudici diocesani si limitavano a bloccare d’urgenza i matrimoni degli impediti. Tuttavia nel marzo del 1718 fu Francesco a chiedere alla Curia arcivescovile di risolvere rapidamente quella pendenza sgradevole: intendeva sposare un’altra donna, cui era legato da tempo.

A quel punto si diede subito da fare anche Antoniella, che nel frattempo aveva cercato di istruire bene le amiche disposte a testimoniare. È grazie ai loro racconti che scopriamo aspetti sconosciuti della vita quotidiana a Procida nel primo Settecento. Alcune indicazioni appaiono di particolare rilievo.

Una riguarda le risposte relative alla domanda, d’obbligo nei tribunali ecclesiastici, sulla pratica della confessione dei peccati. Quasi tutte le testimoni isolane esaminate – 6 su 8 – ricorrono al sacramento spesso, mediamente una o più volte a settimana, e hanno un confessore di fiducia. Quasi tutti i maschi – 4 su 6 – dichiarano invece di confessarsi con cadenze molto più allentate, e, soprattutto, confidano i propri peccati a chi capita, non cercano un padre spirituale.

La forte attenzione della comunità isolana per il rapporto tra donne e Chiesa si esprimeva al meglio, pur in un secolo ricco di novità sul piano dei costumi come il Settecento, in un’altra consuetudine. Nell’isola la tutela formale della verginità trovava proprio nel rapporto con la messa domenicale la sua conferma.

Per segnalare l’illibatezza di Antoniella – come era solito per tutte le altre adolescenti – era necessario, riferì la testimone più accorta, che un qualsiasi componente della sua famiglia la accompagnasse in chiesa, ma alle prime luci dell’alba (“com’è costume di Procida che solo le zitelle vanno accompagnate di matina, di notte”).

Sul piano dei rapporti tra i due giovani tradizione e modernità si incrociavano in modo un po’ paradossale. Per un verso – complice forse la circostanza che Antoniella e Francesco erano orfani di padre – le loro scelte sembrano del tutto autonome dalle rispettive famiglie e ostili alle regole tradizionali: secondo alcune testimoni, ad esempio, il giovane giardiniere aveva dichiarato che ‘la voleva senza un quattrino di dote e senza la zagarella della capa’.

Tuttavia l’ostacolo principale al matrimonio era costituito per lei da una circostanza inusuale nella storia dei fidanzamenti isolani: Francesco era il garzone di un prete potente e temuto: il fratello del curato… Perciò lei era incerta, e aveva ragione. Anche quella presenza ingombrante, come nel passato più buio dell’isola, avrebbe avuto un ruolo nella causa matrimoniale.      (continua)  

 

           

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