Giovanni Romeo – Non fu solo il governo della morte, nei suoi vari aspetti, uno dei nodi più intricati del cattolicesimo della Controriforma. Se è vero che verificare la ‘pulizia’ della coscienza diventò nel Cinque-Seicento un passaggio decisivo per autorizzare la sepoltura di chi moriva all’improvviso, è altrettanto certo che il rigore di quelle scelte mirava a ben altri obiettivi. Una riforma profonda del modo di confessarsi fu senz’altro tra quelli cruciali.
Sull’onda delle esperienze maturate dai gesuiti la Chiesa romana cercò di trasformare il sacramento della penitenza, tradizionalmente poco amato dai fedeli, in un punto di riferimento quotidiano. Rassicurante, praticata spesso, pensata soprattutto per le donne, la ‘nuova’ confessione dei peccati avrebbe dovuto poggiare soprattutto sul ruolo di guida conferito a chi la amministrava: un padre spirituale più che un giudice severo. Anche un modello così fascinoso aveva però i suoi rischi.
I più gravi si intravidero già verso la fine del Cinquecento, quando dalla riconferma dell’obbligo del celibato per gli ecclesiastici e dai controlli accurati che essi furono chiamati ad esercitare in confessionale sulla sessualità femminile scaturì una miscela esplosiva. Divenne subito inevitabile punire duramente i sacerdoti che adescavano le donne in confessione. Fu così che le tre Inquisizioni attive in età moderna (in Portogallo, Spagna e Italia) dovettero impegnarsi a fondo per stanare i preti che abusavano del sacramento in modo così ignobile ed estesero presto i propri controlli anche all’adescamento dei penitenti di sesso maschile.
Gli strascichi di una situazione così imbarazzante per la Chiesa sono stati avvertiti ancora in tempi recenti. Ricordo bene, ad esempio, tra i risultati di un seminario universitario di una ventina di anni fa, le risposte che i nonni diedero a una ragazza irpina sulle confessioni della lontana giovinezza. Mentre la nonna accennò solo, con immutato disgusto, alle domande che riceveva (per lei semplicemente ‘schifose’), il nonno rispose infastidito, in riferimento ai confessori: ‘e si dovevano solo permettere…’ (come dire: se un prete avesse provato solo a mettere il naso nella sua vita sessuale, lo avrebbe aspettato fuori…).
Perciò, malgrado le difficoltà di celebrare processi sgradevoli per la Chiesa e spesso rischiosi per l’incolumità delle donne coinvolte, il Seicento segnò in Italia un discreto numero di casi di adescamento e di condanne severe (i sacerdoti colpevoli finivano quasi sempre a remigare sulle galere). Né mancarono le false accuse, che costarono sofferenze e amarezze a confessori innocenti.
La situazione di Procida è in linea con queste contraddizioni. Risale al 1639 la più antica denuncia di adescamento in confessione contro un sacerdote locale, don Giovan Tommaso Albano. A segnalarne per la prima volta all’Inquisizione gli abusi fu Giovanna Lubrano, una giovane donna, moglie di un marinaio schiavo in terra ottomana.
A suo dire, per alcuni anni non aveva potuto dire di no a talune sue inconsuete richieste avanzate mentre la confessava (‘io mi voglio spaparare con te – una straordinaria, inconsueta espressione – questo core mio’, le aveva confidato). Voleva sapere da lei se i doni inviati da tempo a una donna da lui desiderata le erano stati consegnati. Giovanna, che non si era potuta sottrarre a quella sgradevole incombenza, si sentì rispondere dall’interessata che li aveva ricevuti, ma temeva che lo venissero a sapere i familiari.
Quando lo riferì al prete, la sua reazione fu molto negativa: che donna ingrata! Ne aveva avuti tanti, di suoi regali, e ora rispondeva così… Eppure neanche la morte dell’amata gli fece perdere il vizio, se due anni dopo fu Capuana Lubrano, un’altra giovane isolana, a riferire, obbligata nel corso di un giubileo, che mentre la confessava le chiedeva sempre notizie di una donna sposata di cui si era invaghito.
Don Giovan Tommaso, malgrado un nuovo memoriale che ne segnalava all’Inquisizione la vita disordinata, continuò a fare i propri comodi: ebbe altri due ‘incidenti’ con il foro diocesano, anche se ‘solo’ per crimini comuni. Forse gli diede una mano la diffidenza verso l’Inquisizione di don Giovanni Antonio de Jorio, lo zelante curato procidano dei suoi anni. In una lettera del 1640, in cui riferiva ai superiori il caso di un isolano che si era servito di rimedi magici a Napoli, si domandava come muoversi, visto che le sole testimoni dell’abuso erano donne locali, ‘quali senza scandalo non potriano venire in Napoli’…
D’altra parte fu proprio lui, dedicatosi di lì a poco alle attività missionarie, a seguire, per volontà della Curia arcivescovile, i pochi casi inquisitoriali scaturiti a Procida dall’intensificazione delle missioni e dei connessi giubilei. E in essi fu ancora l’adescamento in confessione, insieme alle pratiche magiche, ad inquietarlo.
Il caso più scabroso riguardò tra il 1643 e il 1648 fra Bonaventura Porta, un francescano osservante nato nell’isola e abituato a tornarci come predicatore quaresimale, ma di stanza a Napoli in un celebre convento del suo Ordine. Il procedimento prese le mosse proprio a Procida, dopo la Pasqua del 1643, a seguito della denuncia presentata da Caterina Costagliola, una giovane penitente. Ne raccolse la deposizione lo stesso de Jorio, grazie alla delega da lui richiesta al vicario generale, per evitare alla donna un viaggio a Napoli. Gli sviluppi della vicenda furono però molto diversi da quelli da lui sperati. (continua)