Giovanni Romeo – Era il 10 maggio del 1643 – era passato poco più di un mese dalla Pasqua – quando una giovane donna, Caterina Costagliola, si presentò nella chiesa abbaziale di Procida per denunciare all’Inquisizione un caso dubbio, obbligata da un confessore. Assolta prima di Pasqua da fra Bonaventura Porta, un religioso di origine locale che predicava spesso per tutto il ciclo quaresimale nell’isola, prima di allontanarsi gli aveva chiesto un favore. Aveva saputo che aveva distribuito molti ‘brevi’ (amuleti, per lo più cartacei, dispensati sia dai sacerdoti, sia dalle fattucchiere, e di solito portati addosso in funzione protettiva) e ne desiderava uno.
Fra Bartolomeo le aveva risposto però in un modo che non le era piaciuto (‘vieni a casa mia, ti voglio dare una corona e dire due parole…’) e così lei aveva deciso di non andarci. Quando però pochi giorni dopo era tornata a confessarsi da lui, prima di accomiatarsi gli aveva chiesto di pregare Dio per lei. Per tutta risposta, però, l’altro, intuito il senso di quella frase, le domandò a bruciapelo se aveva preso a male il suo precedente invito. La donna negò risolutamente, ma il frate ci tenne a rassicurarla sulla limpidezza delle sue intenzioni (voleva darle – disse – solo consigli spirituali).
Bastò tuttavia quel chiarimento non richiesto per turbare la giovane, che di lì a poco decise di segnalare a un altro confessore l’episodio e si trovò obbligata a denunciare il frate all’Inquisizione. Di quell’imprevisto sviluppo Caterina – per usare un eufemismo – non fu particolarmente contenta. Alla domanda di routine del curato (era venuta spinta da odio?) rispose che lo aveva fatto solo per obbedire agli ordini del papa, come le aveva chiarito il nuovo, rigido confessore. Ovviamente, le aveva anche spiegato l’ecclesiastico, fino a quando non avesse rivelato in giudizio l’abuso del frate, non sarebbe stata mai assolta: era così che funzionavano da tempo in Italia i rapporti tra amministrazione del sacramento e Inquisizione.
Nell’immediato, però, non ci furono sviluppi giudiziari, forse anche per la cautela con cui il Sant’Ufficio si muoveva di solito nel trattamento di eccessi come quello, rovinosi per l’immagine della Chiesa. Il caso di fra Bartolomeo ne è un buon esempio. Un paio d’anni dopo fu coinvolto in una nuova e più pesante iniziativa, dovuta allo zelo di un confessore napoletano. Era stato quest’ultimo ad appurare, attraverso Grazia, una giovane penitente restia a comparire in giudizio, gli eccessi compiuti dal frate sul suo corpo, mentre era inferma, appena dopo averla confessata… Inoltre, ad aggravarne gli abusi era la loro particolare sfrontatezza: a pochi metri, nella stessa stanza, c’era anche la madre, che però, a detta di Grazia, non si era accorta di nulla…
Neppure quella denuncia ebbe conseguenze. L’autorevolezza del religioso isolano e forse anche le coperture su cui poteva contare, sia nel suo Ordine, sia in Curia arcivescovile, gli fruttarono oltre tre anni di tranquillità. Era però un equilibrio precario. Nell’estate del 1648 ci fu un piccolo colpo di scena. Di nuovo a Procida, ma nella chiesa di S. Maria delle Grazie, forse per non dare troppa pubblicità all’iniziativa, fu convocata Caterina e si trovò dinanzi, accanto all’ex curato, ora missionario a tempo pieno, il capuano Gregorio Peccerillo, vicario generale dell’arcidiocesi di Napoli. Era la prima volta che capitava da quando l’isola, all’inizio del secolo, era stata incorporata nel territorio diocesano, e sarebbe successo in seguito molto raramente, perché forse c’era stata qualche segnalazione informale in Curia
A un prelato esperto come lui bastò poco per rendersi conto che la donna non aveva detto tutta la verità nella denuncia del 1643. Non appena le domandò se aveva accettato i reiterati inviti di fra Bartolomeo e si era recata a casa sua, Caterina crollò e rivelò la verità. Non solo c’era andata, ma lui le aveva rivolto pesanti apprezzamenti, anche se per le sue resistenze si era dovuto limitare a toccarle il seno. Cercò anche di giustificare la reticenza delle precedenti dichiarazioni (il confessore, a suo dire, non le aveva domandato se aveva accolto l’invito del frate) e fu rilasciata.
Per il frate, a più di cinque anni dalla prima denuncia, la situazione precipitò. Se il 25 luglio del 1648 Caterina aveva vuotato il sacco, pochi giorni dopo, a Napoli, il religioso – 45 anni, una figura di primo piano nel suo Ordine, in cui aveva rivestito prestigiosi incarichi – dovette difendersi da detenuto dai pesanti addebiti. Lo fece con abilità, insistendo soprattutto sul malanimo dei confratelli, invidiosi del gran numero di fedeli legati a lui, e – argomento meno usuale in questo tipo di processi – sul suo carattere gioviale e allegro. Qualche penitente poteva aver frainteso, ecco la sua spiegazione.
Il convento nominò subito un avvocato, anche per difendere l’onore dell’Ordine, ma l’invio degli atti ai cardinali del Sant’Ufficio, obbligato per questo tipo di processi, e la decisione romana, di poco successiva, furono una doccia gelata per l’arcivescovo Filomarino e la sua Curia. Le due donne non erano credibili, ed era stato un errore fare leva sulle loro dichiarazioni. Se il religioso intendeva procedere nei loro confronti, ne aveva il diritto. Altrimenti bisognava rilasciarlo immediatamente, sia pure ‘firmo remanente processu’, cioè senza assolverlo pienamente: una scelta che oggi può sembrare pilatesca, ma era molto comune nella Chiesa della Controriforma…