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Matrimoni complicati nella Procida del Seicento. Il caso di Beatrice e Andrea

DiRedazione Procida

Mar 26, 2023

Giovanni Romeo – Il 15 aprile del 1676 un bottaio trentaseienne di Procida, Andrea Piro, presentò a Napoli, nella Curia arcivescovile, un’istanza formale volta ad ottenere l’annullamento del suo matrimonio. Lo aveva contratto otto anni prima con una quindicenne isolana, Beatrice Scotto di Perta, ma secondo lui c’erano almeno due fondati motivi a sostegno della sua richiesta.

Il primo riguardava sia una lunga relazione da lui avuta con la madre di Beatrice, sia la circostanza che proprio da lei era stato costretto a sposarne la figlia: fatti che, se provati, avrebbero da soli inficiato l’atto. C’era poi un’altra ragione, non meno grave, che rendeva nullo quel matrimonio: a Procida era notorio che Beatrice era malata di mente, come fu subito chiaro all’avvio della procedura giudiziaria: l’iniziativa di Andrea fu notificata solo al curatore della giovane donna.

Si aprì così una causa intensa e ricca di colpi di scena, oltre che di indicazioni preziose sulla vita quotidiana, in un momento ‘magico’ per l’isola, alla vigilia di una delle stagioni più dinamiche e fortunate della sua storia. Che vi fosse qualcosa di anomalo nel matrimonio dei due si intuiva già tra le righe dell’autorizzazione a sposarsi, rilasciata ad Andrea e Beatrice nel 1668 dal vicario generale, dopo la breve informativa di rito sul loro stato libero.

Il provvedimento prevedeva infatti per i due l’obbligo di sposarsi senza dare troppo nell’occhio (bisognava celebrare il matrimonio privatamente, senza pompa e senza festeggiamenti). Ed è anche il caso di osservare che l’espressione usata nel decreto del vicario – divieto di ‘baccanali’ – indica con chiarezza che di solito anche a Procida, come in età moderna in ogni angolo d’Italia e di Europa, le cerimonie matrimoniali fossero seguite da feste cariche di simbolismi.

A un’unione così dimessa e triste si era giunti peraltro in modo altrettanto atipico, se si riflette sulle trattative tra famiglie, spesso estenuanti, che nell’isola precedevano abitualmente le intese matrimoniali. Al contrario, nei maneggi che condussero sull’altare Andrea e Beatrice fu decisiva solo la spregiudicatezza della madre di lei, Porzia Ambrosino.

Le premesse per il loro matrimonio erano state poste proprio da lei cinque anni prima, nel 1663, forse per caso, forse per una scelta deliberata. Porzia, proprietaria di un vigneto in una delle zone più sperdute e suggestive dell’isola, dalle parti di Capo Bove (‘et proprie nel loco detto le vene di Capovoie’, si annota nel manoscritto) aveva convocato Andrea, che viveva invece in alto, nel cuore storico di Procida, vicino all’abbazia di S. Michele, per motivi di lavoro: doveva farsi ‘conciare’ le botti prima della vendemmia.

Per l’artigiano non era un impegno come tanti. Arrivare lì dalla sommità dell’isola era come addentrarsi nel cuore di una natura incontaminata: l’espressione con cui descrisse in Curia il percorso che aveva dovuto seguire per raggiungere la cantina (‘abbasso alli giardini di Procida’) è straordinariamente suggestiva. Tra una botte e l’altra, però, Porzia e lui erano diventati amici. L’anno dopo la donna lo chiamò di nuovo, e non solo per svolgere il suo lavoro. Fu proprio allora, dichiarò Andrea, che ‘li posi amore et li tenni commercio carnale per il spatio di tre anni’.

Non ci volle molto, però, perché nell’isola si cominciasse a parlare di quella relazione, non senza conseguenze per il giovane; gli bastò l’arrivo di una missione per decidere di confidarsi con un confessore e convincersi ad abbandonare la donna. Non avrebbe mai immaginato i contraccolpi di quella scelta: le reazioni di Porzia furono rabbiose, cariche di odio. La prima volta che lo incontrò per strada gli disse che ‘gli voleva fare perdere la gioventù et l’anima’ e cominciò a rinfacciargli un abuso inventato di sana pianta: la doveva smettere – gli intimò – di promettere a sua figlia di sposarla…Ad Andrea servì a poco negare risolutamente una simile intenzione, ovviamente inesistente.

Si aprì a quel punto per lui un capitolo nuovo e impensabile: gli toccò difendersi in ogni modo dalle trappole imbastite da una donna scaltra e vendicativa, in combutta con i suoi amici. Fu così che un sacerdote isolano, don Cesare Catarese, chiese all’artigiano una singolare ‘cortesia’, in verità più simile a un vero e proprio ricatto. Andrea avrebbe dovuto convincere una donna desiderata dal prete a recarsi a casa di quest’ultimo. Se ci fosse riuscito, don Cesare avrebbe dissuaso Porzia dal continuare a perseguitarlo…

Sfortunatamente per lui, Andrea non poté accontentare l’ecclesiastico – non conosceva quella signora – e glielo disse con buoni modi, ma senza risultati. Nel frattempo, siccome aveva conosciuto una ragazza e pensava di sposarla, Porzia cominciò a dire a destra e a manca che avrebbe presentato istanza di impedimento, in base a un presunto impegno matrimoniale assunto dal giovane con la figlia.

Preoccupato, allora, l’artigiano, che poteva contare su un’amicizia con un sacerdote napoletano influente, si consultò con lui e ne ebbe il suggerimento di far convocare in Curia arcivescovile le due donne. Lì proprio il suo amico avrebbe spiegato loro che il matrimonio tra Beatrice  e Andrea era impossibile, per la relazione che lui aveva avuto con la madre. Al ritorno a Procida, però, le due donne lo fecero carcerare dal capitano dell’isola, con i ceppi ai piedi. Era il novembre del 1667 e da allora la vita dello sfortunato bottaio non fu più la stessa…       (continua)

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