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‘Locca et scema di cervello’: la dolorosa storia di una giovane procidana del Seicento

DiRedazione Procida

Apr 2, 2023

Giovanni Romeo – Sono davvero sconcertanti le dinamiche della causa avviata nel 1676 dal bottaio procidano Andrea Piro per ottenere l’annullamento di un matrimonio celebrato nel 1668. Il procedimento con cui l’artigiano cercò di riconquistare lo stato libero ruotava tutto attorno al grave disagio psichico della moglie, Beatrice Scotto di Perta, e alle losche manovre di Porzia, la suocera, nonché ex amante di Andrea, inviperita dall’abbandono e abilissima nell’architettare contro lui trappole particolarmente insidiose.

Eppure i giudici ecclesiastici non ritennero opportuno convocare neppure la sola madre della ragazza (quanto a quest’ultima, era stato forse il clero locale ad assicurarli della inutilità di coinvolgerla, per il suo precario stato mentale). Malgrado tutto, però, è la loro presenza, pur molto diversa (silenziosa e passiva quella di Beatrice, invadente, se non tentacolare, quella di Porzia), a dominare la scena, nei ricchi resoconti resi dai testimoni nel dicembre del 1676.

            D’altra parte, nel giugno precedente, era stato lo stesso Andrea, nell’unica sua deposizione, a segnalare la freddezza e la malizia con cui l’ex amante si era accanita su di lui, dopo la carcerazione, pur di costringerlo a sposare la figlia. Egli era apparso allora come un uomo fiducioso, convinto delle sue ragioni e sicuro dell’annullamento del matrimonio. Le tante angherie subite dalla donna gli facevano credere che i giudici ne avrebbero smascherato agevolmente le manovre. Ne è una prova la singolare offerta con cui era cominciata la sua iniziativa legale: si era dichiarato pronto a rifondere a Beatrice tutte le spese della causa, pur di riacquistare rapidamente lo stato libero e chiudere per sempre i conti con quella brutta storia.

Eppure gli sviluppi della detenzione gli avevano fatto capire che la sua posizione era quanto mai fragile. Finito in prigione con l’accusa di stupro, si era subito dato da fare per uscirne. Tuttavia all’istanza di scarcerazione si era opposta Porzia. Si era dichiarata disponibile, come querelante, ad acconsentire alla sua liberazione solo se avesse sposato la figlia.

Di fronte a quella mossa Andrea, consigliatosi con persone fidate, ne aveva avuto un suggerimento audace, adeguato alla malizia della donna. Secondo gli amici, avrebbe fatto bene a ripagarla con la stessa moneta, a dichiararsi pronto al matrimonio con Beatrice e ad andare in chiesa con lei. Tuttavia, nel momento cruciale, alla domanda del parroco sulla sua volontà di sposare la donna, avrebbe dovuto rispondere di no e dichiararsi rifugiato, protetto dal diritto d’asilo riconosciuto ad ogni luogo sacro…

Quella proposta sospetta non era stata accettata. Una donna smaliziata come Porzia non poteva accontentarsi di una dichiarazione d’intenti priva di garanzie. Pretese perciò da Andrea, in cambio della remissione di querela, una cauzione di 300 ducati – una somma alta, poi forse dimezzata – e l’impegno a sposare la figlia entro tre mesi. Solo a quelle condizioni il giovane aveva potuto riconquistare la libertà, anche grazie all’aiuto di un fratello, che si era fatto garante del mantenimento della parola data. Il suo umore rimaneva però pessimo, al solo pensiero che si era impegnato a contrarre un matrimonio assurdo, inconcepibile.

Un giorno però – si avvicinava la scadenza concordata – era venuto suo fratello e senza altre formalità lo aveva accompagnato nella chiesa abbaziale. Lì c’era Beatrice con la madre, ma anche ‘molte altre genti’ a lui sconosciute, forse i congiunti e gli amici di Porzia. Il coadiutore del curato, fedele interprete delle disposizioni del vicario generale, condusse i promessi sposi in sacrestia e lì celebrò una cerimonia triste e ben poco rispettosa delle regole e dello spirito del sacramento: Beatrice infatti, anziché rispondere alla domanda cruciale del sacerdote (‘Vuoi tu sposare…’), scoppiò a piangere ‘perché era locca e scema di cervello’, osservò indispettito Andrea. Malgrado tutto, però, il matrimonio fu ritenuto valido.

I primi giorni di vita in comune dovettero essere terribili per la sventurata ragazza. Noncurante della sua fragilità e intenzionato a far pagare a lei colpe non sue, l’artigiano iniziò la convivenza nel modo più sprezzante. Obbligò infatti Beatrice a dormire su una cassa, non nel letto in cui riposava lui, ed evitò accuratamente di avere rapporti sessuali con lei, per precostituire così le prove per una futura azione legale. A quel punto la madre fu costretta a riprenderla, ovviamente vergine, come dichiarò soddisfatto ai giudici lo stesso Andrea (‘Porzia se la portò in sua casa zita, conforme io l’hebbe’).

In un quadro così fosco ci fu forse un solo segno di attenzione per la sfortunata ragazza. La madre di Andrea la tenne con sé per qualche tempo, forse per stemperare rapporti tempestosi, forse per sincera partecipazione nei confronti di una persona maltrattata e usata in modo ignobile. Neppure quel gesto affettuoso poté però impedire che qualcuno approfittasse di lei e la ingravidasse.

Beatrice aveva dato così alla luce un maschietto, regolarmente battezzato, ma senza il nome del padre. Ovviamente il piccolo era stato subito trasferito a Napoli, alla Santa Casa dell’Annunziata, come tutti i neonati abbandonati. Anche per quella brutta storia Porzia si era data da fare: se qualcuno aveva abusato della figlia, doveva risponderne alla giustizia. Così, forse grazie all’appoggio del capitano, era finito sotto processo addirittura un notaio… (continua)

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