Giovanni Romeo – La causa di annullamento matrimoniale intentata nel 1676 dal bottaio Andrea Piro contro la moglie Beatrice Scotto di Perta, una giovane donna dal fragile equilibrio psichico, ebbe uno sviluppo ben poco lineare. È indicativo il confronto con il processo avviato nello stesso anno presso la corte del capitano di Procida, su querela della stessa Beatrice e della madre Porzia, contro un notaio quarantenne accusato di aver stuprato e ingravidato la giovane. In quel caso la conclusione fu veloce e priva di tensioni. Gli fu sufficiente offrire 15 ducati – una somma irrisoria per un professionista – per ottenere subito l’archiviazione del procedimento.
Più incerti furono invece gli sviluppi della causa matrimoniale avviata a Napoli, nel tribunale diocesano. Eppure l’inizio era stato rapido. Dopo l’istanza di Andrea, presentata nell’aprile del 1676, il 5 maggio seguente il vicario generale aveva dato alle parti pochi giorni di tempo per far valere le rispettive ragioni. Si era mosso però solo il ricorrente, che aveva anche preteso e ottenuto che fosse nominato un curatore degli interessi di Beatrice, trattandosi di una persona incapace di tutelarli.
Tuttavia, malgrado l’impegno di Andrea, l’andamento della causa non corrispose per niente alle sue aspettative. Né i testimoni, né i giudici diedero rilievo alle questioni giudiziarie cruciali, quelle relative alla mancanza di un elemento decisivo per la validità del matrimonio, come il consenso della ragazza, mai espresso in modo adeguato. Furono ascoltati tra l’altro solo 8 dei 19 isolani indicati da Andrea, tra cui due sacerdoti.
I loro interventi, inoltre, si concentrarono, pur con diversità di accenti, sulla relazione tra Andrea e Porzia, la madre di Beatrice, un aspetto irrilevante rispetto al nodo processuale. Alla sfortunata giovane – che pure ne era la figura chiave – furono dedicati solo pochi accenni ripetitivi. Chiederle qualcosa ‘era come parlare a un muro’, dichiararono un rentier e un barbiere, entrambi suoi coetanei. Per altri era solo una donna ‘semplice e di poco cervello’, come sostenne uno degli amici che partecipavano alle allegre riunioni con Andrea e la madre.
L’attenzione di quasi tutti i testimoni è concentrata sulle ore passate a casa di Porzia, nel piccolo paradiso dove la donna viveva. Tutti ricordano con nostalgia i momenti lieti trascorsi ‘in conversatione, tra cammarati’, a mangiare, bere, suonare e cantare. A volte, ricordano, ci rimanevano anche di notte. Tuttavia, come puntualizzò il barbiere, quando gli incontri si allungavano tanto da richiedere il pernottamento, tutti gli intervenuti si arrangiavano a dormire in una camera interna, mentre Andrea e Porzia se ne stavano insieme nello stesso letto in un’altra stanza. Nessuno di essi accenna infine alla presenza e alle reazioni di Beatrice, che forse si limitava ad osservare in disparte quelle lunghe ore festose…
Non diverse, nei suoi confronti, sono le deposizioni dei due ecclesiastici. Uno di essi, un confessore di 43 anni, congiunto di Andrea, sostiene di sapere poco di lei, ma non ha difficoltà a dichiarare che, per essere ‘scema e senza giudizio’, è oggetto comune di dileggio (‘quelli che la sentono parlare se ne ridono e burlano’) … Non c’è alcun dubbio, inoltre, sulla reticenza delle sue risposte. A sottolineare il ruolo di primo piano da lui avuto in una delle fasi più delicate dello scontro tra Andrea e Porzia, è l’altro sacerdote impegnato a ‘governare’ gli intricati sviluppi.
Proprio lui, don Andrea Scotto di Tabaia, giovane prete destinato a diventare nel 1686 vicario perpetuo della Chiesa di Procida, malgrado una fedina penale non proprio immacolata, come egli stesso dichiara, (‘sono stato inquisito molte volte in questo tribunale per molte cause’) sapeva quasi tutto del caso. Era stato anche presente insieme al confratello, al capitano, al notaio e agli interessati, nella camera attigua alle carceri in cui il notaio aveva redatto i capitoli matrimoniali necessari per risolvere la questione.
Le espressioni crude da lui usate per ribadire aspetti del caso già noti – la vendetta di un sacerdote locale contro Andrea (perché non aveva ‘voluto far un ruffianicio che gli chiese’), il fatto che Beatrice, ‘scema di cervello’, era stata ingravidata ‘da molte persone’ a casa della madre – ne preannunciano la triste conclusione. I giudici – è vero – non diedero ragione ad Andrea. Malgrado la richiesta di chiudere il caso, avanzata dal suo legale nel febbraio del 1677, ancora un anno dopo la causa non era stata decisa, né lo fu mai, forse per una forma di solidarietà dei giudici verso la vittima incolpevole della brutta storia.
Qualcosa, però, potrebbe aver spinto il giovane a rinunciare per sempre all’iniziativa legale. L’ipotesi più probabile è che fossero peggiorate le condizioni di salute di Beatrice, che non a caso morì il 1° marzo del 1680, ad appena 27 anni. Le poche cose che sappiamo della fine della dolorosa vicenda riguardano Andrea e Porzia, gli altri due protagonisti.
L’artigiano si risposò senza fretta, nel gennaio del 1684, con una donna con cui conviveva da tempo, se è vero che entrambi erano stati scomunicati: la morte di Beatrice non influì subito sulle sue scelte. Con ogni probabilità però i due si trasferirono altrove: non risultano nei registri di morte dell’isola. Visse a lungo, invece, la terribile Porzia, che si spense nel 1700, a 90 anni. Alla sua vita ben si adatta un noto proverbio procidano: Carna trista nun ne vo Cristo…