Giovanni Romeo – La storia del clero nell’Italia moderna e contemporanea attende ancora ricerche accurate. Si sa poco sulla sua identità, se si escludono le indagini sul governo delle diocesi e sugli atteggiamenti dei vescovi. Le fonti più comuni riguardano i cosiddetti chierici selvaggi, i giovani che acquisivano lo status clericale strumentalmente, solo in funzione dei cospicui privilegi di cui godevano tutti gli ecclesiastici. La loro presenza infestò in particolare l’Italia meridionale ed è un aspetto tra i più sconcertanti della sua storia.
Restano invece nell’ombra modi, tempi e motivazioni della scelta di diventare prete. Tuttavia, quando un sacerdote chiedeva l’annullamento dell’ordinazione, si aprono squarci di luce sulla questione. È il caso delle pressioni esercitate nelle famiglie benestanti per spingere o costringere propri esponenti a una decisione così delicata. Una di queste vicende capitò a Procida nel tardo Ottocento ed è molto suggestiva. Ne racconta il succo l’interessato (ne ometto i dati precisi per evitare pettegolezzi), nella supplica che gli valse il diritto di vivere da laico.
Si chiamava Gennaro e sin da quando aveva tre anni la madre andava spesso con lui in chiesa. Giunta lì, lo affidava al sacrestano, che a sua volta lo accompagnava da don Nicola, un vecchio zio del piccolo (un ‘prete di corte vedute, austerissimo e intransigente’, lo avrebbe poi definito il nipote). Il bambino avrebbe dovuto aspettare che il sacerdote finisse di pregare per poter andare con lui verso l’altare. Lì era costretto a restare, inginocchiato sul gelido marmo, fino al momento della benedizione…Tuttavia il cipiglio ‘imperioso’ dello zio e gli sguardi occhiuti della madre, che rimaneva in chiesa per saggiare le sue reazioni, lo obbligavano a resistere alla prova…
Cominciava così, nell’autunno del 1919, l’accorata istanza con cui don Gennaro, un giovane sacerdote procidano, chiedeva al papa l’annullamento della sua ordinazione. Il motivo che scandiva ogni frase, in un testo appassionato e sofferto, era chiaro: era stato costretto a percorrere una strada, quella del sacerdozio, che non lo aveva mai attirato. L’obbligo di restare a lungo inginocchiato, a tre anni, su un altare gelido, era stato solo il primo di una lunga serie di test volti ad imporgli una decisione così delicata.
Inizialmente Gennaro l’aveva presa bene. Docile e mite, era sembrato pronto ad accettare il ruolo cui la famiglia intendeva destinarlo. La mamma gli aveva addirittura cucito un abitino talare, con tanto di sottana e cotta, quando non aveva ancora indossato il primo paio di calzoni. Era l’unico figlio maschio e aveva anche perso il padre, la sola persona che forse avrebbe potuto aiutarlo, quando era piccolo. Inoltre, ad appena cinque anni era stato costretto a seguire le lezioni di un sacerdote isolano, che tra una frustata e l’altra gli aveva insegnato a leggere e a scrivere. Un altro prete, poi, che – bontà sua – alternava ai colpi di frusta degli scappellotti, gli aveva dato i primi rudimenti di latino… Scuola, casa, chiesa e niente contatti con i compagni: ecco la ricetta preparata dalla famiglia per un ragazzino buono e obbediente.
Tuttavia, malgrado il carattere remissivo, mentre i coetanei ogni tanto avevano diritto a svaghi innocenti o a brevi gite, su di lui i controlli erano continui e rigorosi. Una volta lo zio prete, ‘col veleno ai denti’, dopo averlo sorpreso al porto ad osservare l’arrivo dell’unico piroscafo che raggiungeva ogni giorno Procida da Napoli (!), lo afferrò per un orecchio, torcendoglielo con una violenza che ancora ricordava…Arrivarono poi per Gennaro i difficili anni dell’adolescenza. E proprio allora l’inflessibile don Nicola gli parlò della necessità di indossare l’abito da chierico: oltre tutto, gli disse, aveva compiuto gli studi necessari per affrontare con ottimi risultati quel percorso.
Era l’inizio del cammino che attendevano da tempo la mamma e la famiglia tutta. Lo zio gli fece anche presente il vantaggio che aveva, in quanto isolano. A Procida, gli spiegò, vigeva una prassi inveterata: il privilegio, da sempre riconosciuto ai chierici locali, di rimanere in paese, di prepararsi lì, in vista dell’esame finale. Proprio grazie a quel sistema l’isola continuava ad esprimere un numero enorme di sacerdoti, tra 80 e 100…Si spiegavano anche così gli atteggiamenti delle famiglie più in vista, tutte ben disposte a favorire i congiunti propensi ad entrare nel clero.
Per la madre di Gennaro, che aspettava con trepidazione l’ingresso in Seminario del figlio, si avvicinavano i giorni sognati da sempre. Era evidente, peraltro, che nel frattempo, anche per i turbamenti caratteristici dell’età, la prospettiva clericale, se mai era stata presa in considerazione dall’interessato, lo rendeva sempre più perplesso. Ad imprimere una svolta alla sua incerta situazione intervenne però, in modo del tutto casuale, un provvedimento dell’arcivescovo di Napoli, il card. Prisco. Nel 1898 il prelato decise di abolire il noviziato esterno e di imporre a tutti gli aspiranti al sacerdozio l’obbligo di entrare in Seminario. All’inquieto adolescente, che nel frattempo si era sempre più attaccato allo studio, era sembrata una liberazione. Poteva finalmente approfittare di quella nuova situazione per arricchire le sue conoscenze… (continua)