Giovanni Romeo – La dolorosa vicenda illustrata su TgProcida di domenica scorsa ha suscitato numerose reazioni tra i lettori, non solo locali. È sembrato sorprendente, in particolare, che in tempi relativamente recenti e in un’isola ricca e aperta un giovane potesse essere costretto dai familiari ad abbracciare la carriera ecclesiastica, per la quale non aveva alcuna propensione. Qualcuno si è anche indignato per l’infanzia rubata a un bambino, per la precocità incredibile delle pressioni esercitate sulla vittima designata. Non è meno sconcertante, d’altra parte, il seguito della storia, lungo e travagliato.
La svolta impressa nel 1898 dall’arcivescovo di Napoli agli studi degli aspiranti sacerdoti, obbligati tutti a vivere insieme in Seminario, senza le deroghe tradizionalmente concesse ai chierici di Procida, fu all’inizio per Gennaro fonte di speranze. Poteva essere un’occasione propizia, da cogliere al volo, per prepararsi a una svolta sognata da tempo: iscriversi al liceo e chiudere per sempre un’esperienza da incubo. Arrivato il momento, nel marzo del 1901, bisognava solo trovare il coraggio per comunicarlo alla madre. E il giovane, pur timido e mite, ci riuscì: le scrisse una lettera in cui annunciava la sua necessità urgente di uscire dal Seminario per prepararsi all’esame di ingresso nel liceo. Era, tra le righe, l’abbandono dell’abito clericale.
Successe il finimondo: lettere di fuoco della madre, improperi dei familiari, minacce di ogni genere… Dopo qualche giorno si presentò nella portineria del Seminario la sorella maggiore, accompagnata dalla lavandaia di casa, chiese di lui e gli illustrò con le lacrime agli occhi il quadro triste di una famiglia dove da giorni si passava il tempo a piangere e a pregare per il suo ravvedimento… Si commosse anche Gennaro, ovviamente, e se la cavò con un vago impegno a ripensarci. Quando però, in occasione delle vacanze pasquali, tornò a casa, si rese conto della drammaticità della situazione.
Al suo arrivo, il sabato santo, la madre, abbattuta e malinconica, gli rifiutò seccamente il baciamano, e il giorno dopo le campane a gloria della Pasqua suonarono invano per tutti, in una casa devastata dal dolore. Il momento più drammatico fu quello del pranzo: la gola di Gennaro rimase chiusa, incapace di ingerire cibo. Inoltre, non appena tentò di avviare un discorso, per rompere il ghiaccio, si levò la voce imperiosa della madre, che con occhi di fuoco gli preannunciò le sue intenzioni: avrebbe bruciato tutti i suoi libri ed era pronta a preparargli la giubba e la branda per sistemarlo come mozzo sul veliero di famiglia…
Per Gennaro fu micidiale soprattutto l’ultima minaccia. Un giovane mite e obbediente come lui, ma desideroso di studiare, guardava con angoscia alla prospettiva di abbandonare per sempre la vita serena che intendeva costruirsi. Non poteva neppure immaginare di dover affrontare un lavoro faticoso e ben poco gratificante, oltre tutto per una ripicca della madre. Cominciò a piangere a dirotto, chiese perdono alla donna e scappò via, ‘emettendo ruggiti di belva ferita’, per la ‘martoriante puntura di quegli aculei’. Si rifugiò invano per qualche giorno nel colloquio muto con le immagini sacre, cercò requie nei libri di preghiera, nella Bibbia, nel consiglio di un dotto confessore, che però gli suggerì di cercare aiuto in Dio e di continuare…
Ci fu poco da fare: uscì da quel vicolo cieco solo cedendo alle violenze della famiglia. Il mesto ritorno in Seminario segnò uno dei momenti più bui della sua esistenza; oltre tutto, meno di un mese dopo le drammatiche giornate pasquali, fu colpito dal tifo e si salvò a stento dalla morte. Per due anni continuò ad interrogarsi, a sperare in qualche tenue segno di vocazione e a proseguire senza entusiasmo lungo il percorso che lo avrebbe condotto al traguardo, per lui inaccettabile, dell’ordinazione: si sentiva, scrisse nella supplica al papa, ‘come un soldato zoppicante che non può seguire i compagni in marcia’. Cercò di confidarsi con il penitenziere della cattedrale di Napoli, ma con il solo risultato di far piangere per il dolore l’esperto sacerdote. Questi, riavutosi dallo sconforto, gli confidò con amarezza la sua previsione: anziché un buon padre e un buon marito sarebbe stato solo un cattivo sacerdote…
Così, alla fine, Gennaro diventò prete, ma, ammetteva con onestà nella supplica, si trovò sempre in grande disagio, soprattutto per il forte bisogno di affetti femminili. Dichiarava perciò di voler stendere un velo pietoso sulla vita disordinata condotta prima e dopo un’ordinazione accettata solo per debolezza, non perché ne fosse mai stato convinto. Ammetteva solo di aver deposto l’abito e di aver scelto la compagna della sua vita, con cui aveva anche procreato una bambina, per chiudere definitivamente i conti con gli errori e le debolezze susseguenti alle violenze subite.
Taceva del tutto, peraltro, sul modo clamoroso prescelto per tagliare la corda: una rocambolesca fuga notturna dall’isola, concordata con un barcaiolo e seguita da un lungo viaggio in treno. Nel frattempo, però, nella chiesa isolana in cui era atteso per la celebrazione di una messa, la sua assenza consentì in breve di chiarire che cosa era successo. Lo scandalo fu enorme e la famiglia decise di tenere a lungo le finestre del palazzo sbarrate, per segnalare all’isola tutta che era stata colpita, oltre che da un lutto insanabile, da una vergogna infinita per l’accaduto… (continua)