Giovanni Romeo – Di pazienza allo sfortunato Gennaro ce ne volle davvero tanta. A dire il vero, le autorità centrali della Chiesa si erano convinte sin dal 1925 della necessità di dare una risposta rapida alle ripetute, dolenti istanze di un ex prete sfiduciato e stanco. Il Prefetto della Congregazione dei Sacramenti aveva scritto nell’agosto di quell’anno una lettera ferma e precisa all’arcivescovo di Napoli, Alessio Ascalesi. In essa si faceva presente la necessità di affrontare subito la spinosa questione, in piena adesione alle istruzioni diramate dal suo dicastero svariati anni prima.
Anche il card. Ascalesi aveva mostrato inizialmente sincera sollecitudine verso il caso. In un paio di settimane aveva dato incarico a un ufficiale della Curia arcivescovile di interessarsi del processo e nominato il Difensore del vincolo (l’equivalente, nei tribunali ecclesiastici, del Pubblico Ministero nella giustizia italiana di oggi). Aveva inoltre scelto i due scrivani destinati a curare la redazione dei verbali. Sottobanco, però, tra le più alte autorità diocesane qualcuno remava contro, probabilmente all’insaputa dello stesso arcivescovo.
Passarono così altri quattro anni senza che si muovesse foglia. Sicché fu ancora Gennaro, nella primavera del 1929, in un estremo, disperato ricorso, a segnalare alle autorità romane l’intollerabile stallo della sua causa. Tutto dipendeva, secondo lui, dall’atteggiamento ostile di una Curia decisa a fargli pagare la limpidezza della sua iniziativa o forse anche la vita sentimentale sinceramente confessata – certo sconveniente per un ecclesiastico, ma non per un laico costretto a farsi prete…
Stavolta però fu la Congregazione dei Sacramenti, spazientita dall’incresciosa situazione, ad affidare al sottosegretario, non al Prefetto – forse una scelta non casuale, un modo per far sentire la propria irritazione al card. Ascalesi – il compito di segnalare l’urgenza di quel caso. Il funzionario, forse adeguatamente istruito, entrò anche nel merito della causa, con una evidente forzatura. Ricordò infatti con puntiglio all’influente prelato che già dal 15 luglio 1920, da oltre cinque anni, era nota alla sua Curia una dichiarazione resa da un anziano sacerdote isolano, amico del terribile zio prete di Gennaro.
L’ecclesiastico aveva saputo dall’ingombrante confratello che la responsabilità della situazione ricadeva sulla madre del giovane, ossessionata dalla voglia di mettere le mani sui ricchi beni promessi dal fratello sacerdote al primo nipote che si facesse prete. A quella secca annotazione l’ufficiale vaticano aggiungeva, come a rincarare la dose, dettagliate indicazioni: un vero e proprio avvertimento, un modo per sottintendere che la Congregazione era pronta ad avocare a sé ogni decisione. Gli ordinava infatti di convocare quanto prima l’anziano sacerdote, la madre di Gennaro, oltre a qualche altro teste isolano. Avrebbe eseguito così – aggiungeva con una chiusa velenosa – quanto gli era stato già ordinato nel febbraio del 1925.
Era l’8 giugno 1929 ed erano passati quasi dieci anni dalla prima supplica di Gennaro. I toni aspri delle autorità vaticane – un vero e proprio ultimatum – furono efficaci. Nel giro di meno di due mesi fu avviata la procedura. Il 5 agosto fu ascoltato lui e confermò per filo e per segno, anche nei dettagli più intimi, sia le violenze subite in famiglia, sia le relazioni sentimentali intrecciate, sia le conseguenze di quella più delicata (era stato querelato dai genitori della ragazza per corruzione di minorenne, ma era stato prosciolto). Ci vollero però altri due lunghi interrogatori, nei giorni successivi, per esaurire i tanti aspetti oscuri del caso. Ma l’uomo tenne testa a domande anche puntigliose e ‘cattive’.
Tra le sue risposte l’indicazione più importante, fino a quel momento mai emersa, venne da un episodio sconosciuto, relativo a un sacerdote isolano che era al corrente, come tanti isolani, della dolorosa situazione del giovane, allora suddiacono. Gennaro gli aveva domandato – giustamente – perché avesse taciuto al severo zio prete ‘la sua caduta con una giovane’. L’altro però gli aveva risposto con franchezza: ‘Me lo avrei fatto nemico per tutta la vita, dato il suo temperamento’… Gli equilibri interni del clero isolano avevano sempre avuto il sopravvento su una verità scomoda, nota anche a molti fedeli.
Altrettanto sincera fu la risposta di Gennaro, nell’ultimo interrogatorio, a una domanda non meno importante: se l’implacabile mamma avesse mai potuto appurare o constatare, negli anni in cui frequentava il Seminario, le sue ripetute violazioni della castità. Ne aveva prove precise, replicò. Gli era capitato, nella sua disordinata vita di chierico, di incappare in una malattia venerea (la blenorragia), che lasciava tracce nella biancheria intima. Se n’era accorta ovviamente anche la madre, che lo aveva prontamente aiutato a curare l’infezione, senza dare alcun peso alla circostanza. La sua ferma intenzione di volerlo prete si era imposta anche su un’altra prova evidente della convinta laicità del figlio.
La causa – troppo complicata per renderne conto in questa sede – impegnò il tribunale nell’autunno, anche se mancarono due protagonisti della torbida vicenda, la madre e lo zio prete, morti da tempo. Gennaro alla fine ebbe ragione, ma ancora nel luglio del 1631 toccò alla Segreteria del prelato che più si era speso per lui sollecitare la Congregazione dei Sacramenti a chiudere per sempre quella brutta storia con la sentenza.