Giovanni Romeo – Nel maggio del 1763 uno dei punti di forza della richiesta di impedimento matrimoniale presentata da Arcangelo di Majo contro Margherita Scotto di Clemente era stato il racconto della festa di fidanzamento che aveva coronato l’accordo raggiunto tra lui e il padre della ragazza. Erano convenuti in tanti da lei e avevano fatto a lungo baldoria. Arcangelo, raggiante di gioia, aveva lanciato in aria ‘cinque rotole di confetti’ e aveva donato alla promessa sposa, insieme a molte altre cose preziose, un anello d’oro, che lei aveva subito messo al dito…
Anche in seguito – continuava la versione dei fatti presentata in tribunale – il giovane aveva riempito di regali Margherita. Accanto a numerosi oggetti d’argento e a seterie di ogni genere le aveva donato, oltre a un secondo anello d’oro, che lei aveva mostrato immediatamente a tutte le vicine, uno specchio piccolo ‘alla torchesca’ e un paio di pantofole, anch’esse ‘alla torchesca’… Inoltre – altra novità curiosa rispetto alle tradizioni locali – la promessa sposa aveva dormito a lungo con la madre di lui e un suo fratello era stato ospite per due anni e mezzo a casa di Arcangelo.
Niente poi era cambiato per la ragazza, dopo che erano affondati in Calabria due bastimenti di proprietà della famiglia del fidanzato. Forse si era accontentata di sapere che il naviglio era assicurato e che il padre di Arcangelo possedeva ‘ordegne’ (attrezzature navali) del valore di 1000 ducati. Sicché per il carnevale del 1763 Arcangelo le aveva anche regalato ‘il letto sponsalitio’, corredato di quattro materassi di lana pregiata e di una cortina di mussolina, suscitando, a suo dire, l’entusiasmo di Margherita…
Non era vero niente, ribatté la donna, quando fu convocata dai giudici per dire la sua. Ammise soltanto di aver dormito per poche notti con la futura suocera, ma solo per farsi cucire da un sarto una veste di damasco nero all’insaputa della madre. Tra loro due, insomma, era finita, e per sua irrevocabile decisione. Dopo un paio di settimane, infatti, il suo avvocato presentò una lunga serie di controdeduzioni, da sottoporre all’esame di testimoni di fiducia della giovane. Il quadro che ne scaturiva era inequivocabile.
Da tempo, molto prima che Margherita lo piantasse in asso, la vita disordinata del fidanzato era ben nota nell’isola. Vincenzo Alfano, il testimone che lo conosceva meglio, sia perché lavorava sulle tartane, sia perché era suo compare, fu esplicito. Non erano solo rapporti con prostitute, tollerati da sempre, per uomini spesso lontani dalle mogli per anni. Ben tre fratelli di Arcangelo, tutti marinai, vivevano lontano da Procida, accasati in altre isole (due a Lipari, uno a Malta).
Su quella strada era ben avviato anche il fratello, malgrado la promessa a Margherita: a Messina aveva una relazione con una donna che il teste conosceva, anche se il rapporto più intenso legava Arcangelo a una ragazza maltese. Quest’ultima apparteneva tra l’altro a una famiglia ‘onorata’, che poteva vantare sacerdoti in casa, ed era affezionata a lui: proprio pochi mesi prima, nelle festività pasquali, li aveva incontrati a Messina, dove stavano trascorrendo le vacanze. Era stato in quel frangente che il giovane – forse analfabeta o semianalfabeta – aveva chiesto a Vincenzo di scrivergli una lettera, indirizzata alla madre.
Certo dell’abbandono da parte di Margherita, desiderava che la donna gli spedisse sia un attestato di stato libero, in vista del matrimonio con la compagna maltese, sia i doni pregiati riavuti dall’ex fidanzata, per regalarli alla nuova. A Margherita invece – preannunciò all’amico – intendeva dare filo da torcere, in vista dell’imminente suo matrimonio con un altro imprenditore marittimo isolano (di lì a poche ore un altro testimone confermò ai giudici che Arcangelo spiattellava a destra e a manca la sua intenzione di farla ‘crepare in corpo’ attraverso l’impedimento).
Ancor più ricca di indicazioni fu, due giorni dopo, la deposizione di Matteo Cammarota, un altro marinaio di Procida, che si era incontrato a Messina con Arcangelo, a Pasqua, e aveva pranzato sulla sua tartana. Proprio a lui infatti il giovane aveva dato un’oncia d’oro da consegnare alla madre: doveva servirle per le spese occorrenti per ottenere e spedirgli il certificato di stato libero, insieme ad attrezzature navali e a vestiti per lui, nuovi e necessari per ben figurare (‘di comparenza’) nel matrimonio maltese imminente. Matteo, arrivato a Procida, aveva consegnato la lettera alla donna, ma pochi giorni dopo era affondata anche la terza tartana di Arcangelo e il progetto matrimoniale maltese del giovane era miseramente naufragato… Fu la madre stessa, a quel punto, a sospendere ogni iniziativa.
Quella causa matrimoniale atipica, in cui era evidente fin dalle prime battute che la giustizia ecclesiastica aveva davvero poco o nulla da dire, era ormai agli sgoccioli. Oltre tutto – altro segno dell’evoluzione settecentesca dei costumi isolani – la Chiesa di Procida non era stata in alcun modo coinvolta in quel fidanzamento. Nessuno degli interessati si era curato di ufficializzare la promessa dinanzi al curato e quasi tutte le dinamiche del caso si erano svolte tra le rispettive famiglie. Fu la madre di Arcangelo, alla fine, a notificare alla Curia la rinuncia del figlio all’azione legale. Di lì a poco sia lui, sia Margherita poterono sposare altri partner isolani: un doppio matrimonio immediato, una conclusione unica nella storia locale delle battaglie legali tra fidanzati.