Giovanni Romeo – La formazione dei futuri sacerdoti è stata da sempre per la Chiesa cattolica un problema serio, non solo per la spinosa questione del celibato. Ne è una prova lampante l’impegno crescente manifestato al riguardo nel ‘500, dopo che la fine dell’unità religiosa dell’Europa aveva reso urgente il recupero del terreno perduto. Tuttavia le soluzioni adottate furono insufficienti. Fa testo il caso dei Seminari: la loro istituzione fu a lungo una risposta ben poco efficace alle vite disordinate e violente di tanti ecclesiastici. I dati relativi ai chierici e ai preti macchiatisi in tutta l’Italia moderna di crimini comuni anche gravissimi sono eloquenti. Le molte decine di migliaia di processi penali conservati delineano un quadro desolante, che la giustizia degli antichi Stati italiani poté contrastare adeguatamente solo tardi e a fatica.
Il clero di Procida non sfuggì a queste contraddizioni: come nel resto d’Italia, un segmento non proprio esiguo dei suoi esponenti fu coinvolto in procedimenti di ogni genere (atti di violenza, truffe, abusi sessuali di vario tipo). Un vivace caso capitato nel 1704 ne è una buona testimonianza. Nell’aprile di quell’anno Leonardo Mazzella di Stelletto, un giovane marinaio, vedovo con figli piccoli, si presentò dinanzi al vicario foraneo (il delegato arcivescovile, responsabile spiritualmente dell’isola) per denunciare don Francesco Catarese, un prete locale.
Da tempo, sia lui, sia gli altri vicini – tutti abitanti nelle vicinanze della chiesa abbaziale – si erano accorti delle attenzioni sospette del sacerdote nei confronti di Cecilia, la cognata poco più che ventenne che aiutava Leonardo ad allevare i figli della sorella defunta. Perciò il giovane aveva più volte messo in guardia la congiunta, invitandola ad evitare i contatti con l’ecclesiastico e a non andare a casa sua, per non alimentare maldicenze. Pochi giorni prima, però, nel buio della sera, aveva sorpreso don Francesco dinanzi alla porta del suo vefio (il balconcino caratteristico dell’architettura isolana), e senza la tonaca, in giacca da camera. Aveva cercato di bloccarlo, ma l’altro era fuggito e allora Leonardo, oltre ad insultarlo (‘becco fottuto’), gli aveva anche lanciato alcune pietre, senza colpirlo.
Tuttavia, ai vicini subito accorsi, sorpresi dal trambusto, aveva preferito dire che era stato un ragazzino, per evitare pettegolezzi sulla cognata. La bugia servì però a poco: cominciò subito a circolare ‘qualche sussurro’ sui rapporti tra Cecilia e l’ecclesiastico. Questi, due giorni dopo, fermò Leonardo e si lamentò con lui per le voci diffuse sul suo conto. La ferma replica del marinaio – non era stato lui, da sempre abituato a portare rispetto ai sacerdoti – servì a poco.
Dopo una decina di giorni don Francesco tornò alla carica, stavolta con toni minacciosi e volgari. All’interno di una bottega, in un angolo dove nessuno poteva ascoltarli, lo accusò con termini offensivi (ancora ‘becco fottuto’) di averlo screditato a destra e a manca. Il marinaio a quel punto gli rispose a muso duro e gli rinfacciò senza peli sulla lingua che i suoi comportamenti erano noti a tutti e che continuava ad immischiarsi in cose proibite a un sacerdote. Stavolta però – aggiunse – il rispetto per il suo ruolo non gli avrebbe impedito di segnalarne gli eccessi ai superiori.
Fu così che dopo qualche giorno Leonardo rivelò l’accaduto al vicario foraneo, ma non senza chiedergli cautela, per le possibili conseguenze negative dell’iniziativa. Quegli eccessi non dovevano essere divulgati in alcun modo attraverso un’indagine vera e propria: c’era il rischio fondato che la cognata Cecilia non si potesse più sposare, se si veniva a sapere qualcosa dei ripetuti contatti con lei cercati dal prete…
Di fronte al perentorio invito il vicario, che pure gli domandò se sporgeva querela per l’accaduto e ne ebbe la conferma, pensò bene di non procedere a verifiche. La decisione calmò le acque per un po’, ma non fu risolutiva. All’improvviso, sei mesi dopo, don Francesco, infastidito dai pettegolezzi che continuavano a circolare sul suo conto, pensò bene di dare una lezione a Leonardo. Era una sera di ottobre, e il giovane, rientrato a casa, trovata la candela spenta, fu costretto, per riaccenderla, ad uscire di nuovo per chiedere del fuoco a qualche vicino.
Quando però aprì la porta della ‘gradiata’ della sua abitazione per raggiungere la strada, don Francesco lo colpì con una mazza vicino all’occhio e si diede alla fuga. Riavutosi subito, il giovane cominciò ad inseguirlo, lo raggiunse e riuscì anche a togliergli il soprabito, ma non poté evitare di ricevere un altro colpo al braccio, prima che l’altro si desse alla fuga. Leonardo lo querelò immediatamente e stavolta la giustizia sembrò più sollecita. Due chirurghi accertarono i danni da lui subiti, per sua fortuna modesti, mentre don Francesco fu obbligato dalla Curia arcivescovile a trattenersi a Napoli, per evitare che la sua permanenza sull’isola provocasse reazioni.
A sorpresa, però, fu proprio il giovane marinaio a discolparlo, per motivi ignoti, ma forse ancora una volta per evitare che la vicenda si ritorcesse contro la cognata e ne pregiudicasse l’onore e le possibilità di matrimonio. Nel giro di pochi giorni don Francesco, accampando il bisogno di assistere una sorella, sola e malata, poté tornare a Procida. Da allora le sue tracce si perdono. Forse soltanto la morte precoce, intervenuta nel 1716, quando aveva appena 55 anni, liberò per sempre dall’incubo Leonardo e Cecilia.