Porfilio Lubrano Lavadera – Provare a contribuire al conferimento di crescenti contenuti in favore di verità e giustizia al contempo, affinchè siano stabile tendenza e proiezione verso i “ classici “ sferici 360 gradi per una perfettibilità ermeneutica dunque che non sia solo di estremizzazione tout court da aut-aut tipo “ bianco o nero “ , non può esimersi dal provare altresì a superare quella sorta di stereotipo da chiavi di lettura/interpetrazioni appiattite, cercando quindi di ingenerare – ingenerandosi – di una conoscenza del proprio essere in quanto tale e cosi con il divenire con cui se ne dispiega nella maggior parte delle accezioni possibili; certo è che per potere considerare le fonti informative accreditate sostanzialmente ( oltre che – chiaramente – formalmente ) risulta parecchio complicato per la mancanza di un criterio univoco – sicchè preventivamente concordato in toto a seconda della esperienza storica considerata – in quanto tale da potere persino giungere a fungere da dirimente per memorie storiche mai completamente assurte a verità incontrovertibili, tale per cui già solo il rischio del margine di sospetto per manipolazione e/o strumentalizzazioni risulta comunque sempre in agguato: tale “ rischio “ ritengo possa – quantomeno prevalentemente – essere superato partendo dall’assunto a considerarsi basico, quindi, che fra tesi ed antitesi non sempre ci sia la sintesi, onde evitare, tra l’altro, in tal modo, sin ab initio, preconcetti, l’essere prevenuti, l’essere parziali e tutto quant’altro di simile.
Perciò – correlativamente, ritengo – che l’impostazione più consona e corretta in questa contestualizzazione da individuazione del tempo migliore per farlo, risieda nelle identità e – più specificatamente – nei contenuti che le sostanzia, per la “ storicità sperimentata “ che ne acclude, con il prototipo delle diverse realtà territoriali che dunque possono ben legittimamente rappresentarne il prodromo da paradigma di riferimento a mò di vero e proprio assioma da sviluppo, baluardo da assertiva obiettiva nel passaggio da identità di genere ad identità di specie per segnare appartenenze più o meno marcate ( dunque oltre il riduttivo discorso precitato da aut-aut, inspecie fra autentico ed inautentico, troppo rigido e tassativo per ambire a riflessioni da dinamicità interiori ) onde garantirsi – alimentandosi – di “ democratica equidistanza “ per pari dignità fra strumenti ed obiettivi, sin già quindi per assicurarsi delle paritarie condizioni di partenza in ordine alla ricerca della conoscenza cosi prefissata, fra armoniosa continuità e specificità al contempo; di tal guisa, quindi, vien agevole evincere che la democrazia in toto considerata, per ampia riconoscibilità logica, è anzitutto metodo, avendone evidenza palmare per la comparazione/confronto che ne sottende, implicandosi invero di obiettivi sin già perseguendoli.
Più in concreto, usi, costumi, tradizioni, consuetudini, abitudini (e tutto quant’altro da specificità caratterizzante similare ) essendo ciò che sostanzia/no le diverse identità ( chiaramente, pur sempre con la doverosa pari dignità rispettiva), non possono che partire dai diversi territori di provenienza cosi come la storia in progresso di tempo secolare, ci insegna, allo scopo di argomentare, in primis, in termini di originalità anziché di derivazione; talchè la stessa storia di un popolo se ne caratterizza in modo più o meno singolare, fino a giungere alla massima espressione dei “ popoli del mare “ , sicchè ad identità propria già solo perché connotati di completezza ( e connessa maggiore apertura mentale ) in quanto itineranti e stabili al contempo nella poliedricità che li caratterizza senza antinomie alcuna, con contraddizioni solo apparenti, in quanto tali integrativi e fautori al contempo stesso di scambi multiculturali/multietnici continui ( per inciso: mai multirazziali giacchè la razza umana è unica ), giusto per sintetizzare al massimo, ovvero la massima “ opzione conoscitiva “ configurabile.
Praticizzando vieppiù il discorso in esame, dagli “ shardana “ ( popoli del mare, appunto, inspecie Sardi, ma ex multis, ad esempio anche Scandinavi – danesi – per il nordeuropa ) agli altri “ insulari “ – limitandoci – al mediterraneo, le similitudini sono tante e quindi anche per tale profilo, senza dover ricorrere ad estremizzazioni da “ assimilazioni “, onde contribuire sempre più ad evitare il rischio di forme di globalizzazioni che mortificano le identità , da una parte .
Dall’altre parte e correlativamente, la ricchezza identitaria dei “popoli del mare “contribuisce in maniera rilevante a rendere efficace erudizione meritoria in ordine all’assunto che “ i veri genitori “ non solo quelli che ci concepiscono, bensi anche e soprattutto quelli che contribuiscono a formarci educandoci ai dettami dei più nobili valori e principi dell’umano coesistere. In questa sorta di costante educazione alla spontaneità del sentire per sentirsi parte di una sensibilità comune, nello specifico della nostra amata isola di Procida, il quadro che se ne ingenera non può che essere la insularità come identità di genere e la procidaneità come identità di specie, ovvero come un vero e proprio status di interiorità/di forma mentis, così connotandosi di tipizzazione caratterizzante da identità propria, anziché derivata.
Perciò non è consono ne plausibile in alcunchè, ad esempio ex multis, che in una foto e/o quadro della Corricella o della Chiaolella sia scritto Napoli anziché Procida o comunque cumulare insieme tali 2 ( due) troppo diverse realtà territoriali , cosi come in una sagra da “ insalata di limoni “ o del vino, associare Napoli a Procida ( almeno per quanto risulta notorio per i titoli/intestazioni già solo sui social) e così via via svariando fra usi, costumi, tradizioni, consuetudini e persino abitudini non solo culinarie/gastronomiche ma anche da marineria eccelsa ( ne è riprova il blasone universalmente riconosciuto al locale Istituto Nautico di Procida ) che ha fornito nel tempo tante eccellenze al mondo marittimo mondiale, oppure alla “indigeneità/autoctonia agreste/bucolica-contadina di “ ciuppeto “ ( pioppeto) tipica e caratterizzante proprio di una parte dell’isola d Procida per la presenza di molti pioppeti ( “ filer “ , per dire filiera ) da cui ricavare la seta, oppure i “ iunch “ ( una specie vegetale di legamenti da sottili spaghi per “ accannare “ a mò di protezione, la coltivazione dei pomodori ), la processione del Venerdi Santo, fino a giungere a considerare erroneamente all’interno del golfo di Napoli la stessa Procida quando invece ne è fuori, discorrendo in termini geografici; il tutto ( che solo per mera esemplificazione, ci si è limitati alla presente brevità suntiva da esempi antescritti, bastando – parimenti – a tal uopo la notorietà a conferirne valenza/fonte probatoria certa), quindi, non certo per spregiare la – tra l’altro bella – città di Napoli né tantomeno per perorare/avallare discorsi da “ provincia autonoma “, bensi pur sempre e solo per verità e giustizia a 360 gradi al contempo, onde evitare “ espropri da identità “ , in quanto tali illegittimi, da dover ricorrere a rivendicazioni probatorie da autonomie territoriali vere e proprie, sin già dalle più capillari che rischiano la desuetudine/anacronismo, non bastando evidentemente la notoria visibilità cosmopolita, inspecie raggiunta nei tempi recenti dello scorso 2022 con capitale italiana della cultura.
A riprova della esattezza di tale assunto, basti pensare – e sempre parimenti come è notorio – che un elemento pregnante per il conseguimento di tale prestigioso riconoscimento sia stato proprio la progettualità imperniata sulla insularità, dunque nel crescendo insito e connesso ad una identità propria incamerata nei secoli e scoperchiatasi quindi all’esito di tale processo multisecolare per la integrazione multiculturale/multietnica, anziché come il “ subire “ per converso la identità da classici “ popoli dominati ” e quindi subire/importare/derivare correlativamente, usi, costumi, tradizioni, consuetudini, abitudini, come è avvenuto, ad esempio, con la città di Napoli in progresso multisecolare con la cultura ellenica dei greci ( polis, neapolis e parthenope), poi con i romani ( inspecie pure con la – parimenti bella – città di Pozzuoli), i normanni ( uomini del nord, inspecie scandinavi), i francesi ( Angioini) e gli iberici ( spagnoli/borboni), con ogni implicazione sia in termini positivi che negativi, sia di pregi che di difetti, ovvero sia comunque come arricchimento culturale che come gettata di basi da degenerata visione di “ situazione da ente esterno dominante assistenzialista “ , ordunque a rivelarsi tale per mancata – o comunque insufficiente – valorizzazione del proprio patrimonio umano e materiale, in termini di bellezze e risorse indigene/autoctone; pertanto anche sotto tale ultimo aspetto, occorrerebbe intendersi preventivamente – e sempre con un criterio univoco – circa i contenuti più precisi del – peraltro nobile – principio che la diversità è un valore, ovvero soprattutto in termini di limiti ed attualizzazione: certo è che non possa revocarsi in dubbio la differenza sostanziale tra l’integrarsi ed il subire culture, inspecie quindi in termini di influssi etnici esterni incidenti in modo ragguardevole sulle mentalità a formarsi, cosi come sulle – coscienze – a recepirle a seconda del diverso grado di sensibilità e di condizionamento ambientale del periodo di riferimento, cosi indicizzandosi di più o meno efficace comprensione di tale fenomenologia . Dunque ci si sta argomentando in termini di “isola ribelle “ a proposito di Procida, come a volersi svincolare da ipotesi di “ dipendenza “ geopolitica-sociale-culturale ? Assolutamente no, ma solo ad evidenziarne che “ l’import/export “ da contenitore di assorbente cultura identitaria l’ha riguardata nel tempo come integrazione anziché averla subita da dominazione, sostanziando quindi la nostra identità insulare/procidana di originalità arricchita, anziché di IDENTITA’ DERIVATE, con tutto – peraltro – il doveroso rispetto per queste ultime e già solo perché se tale status quo ha resistito ai secoli è perché si è ingenerata una vera e propria acquiescenza da compiacenza consolidata – e quindi benché non da condivisione – giacché quest’ultima può ben legittimamente ritenersi approdo dell’anarchia ( la parte nobile di essa ), ovvero si giunge alla condivisione proprio attraverso la convergenza/integrazione anziché – appunto, invece – la dominazione/imposizione/derivazione per le quali il subirla in quanto tale, risulta assorbente tout court.
Pertanto, ad esempio, una dispersione identitaria, persino a mò di distorta comprensione, da eccessiva relativistica memoria pirandelliana di una sorta “ di uno, nessuno e centomila ” , certamente non può appartenere alla insularità come genere ed alla procidaneità come specie, cosi come non potrà mai appartenergli – quantomeno prevalentemente – “ un modus agendi “ da deresponsabilizzazione di menagès esistenziali da “ mamm mà fett e Dii ce pens “ che pur dovendogli rispetto, ossia per chi intende accontentarsi apprezzando ciò che ha, non può certamente appartenere almeno prevalentemente alla mentalità tipica di un insulare e già solo perché riduttiva al cospetto dell’ innato – per naturale destinazione di interiorità – spirito di viaggiare sempre, onde ampliare le proprie conoscenze, ma pur sempre nel rispetto della propria identità per patrimonio storico-genetico, pur con la consapevolezza di poter apparire talvolta arroccato e troppo coriaceo al proprio “ IO insulare “, talaltra ampiamente superata/migliorata per la intelligente predisposizione alla integrazione, interazione sinergica ed al confronto dei popoli che dal mare e per il mare traggono e consolidano le forze di coesione, attraverso meritocrazia e sacrificio quotidiano al contempo, con ogni pregio e difetto, cosi cementando di crescendo l’orgoglio di sentirsi – prima ancora che essere – insulari di genere e procidani di specie ; da ospiti ed ospitanti al contempo medesimo il senso delle pari opportunità con la straordinaria energia, bellezza e ricchezza che l’indotto mare offre : ingenerandosi, sviluppandosi e dispiegandosi cosi da mare di patria, bastando pochi lembi di terra per affermarsi – impiantandosi visceralmente – della bandiera sempre più alta della dignità.