Procida – Un’isola, si sa, è una terra di confine: un luogo dove la bellezza incontra l’isolamento, dove il mare, che incanta e protegge, può diventare una barriera insuperabile. Procida, con i suoi paesaggi mozzafiato e il suo fascino senza tempo, porta su di sé il peso di questa dualità. Ma dietro le case color pastello e le acque cristalline, si nasconde un dramma che gli isolani vivono ogni giorno: la lotta contro un sistema sanitario fragile e un isolamento che, nei momenti più critici, rende la vita sull’isola una vera prigione.
Procida è un luogo che sembra sospeso in un altro tempo, dove la vita scorre con i ritmi lenti della natura, ma quando l’emergenza bussa alla porta, tutto si trasforma. La bellezza lascia spazio alla paura, alla lotta contro il tempo, alla disperazione di chi, intrappolato tra cielo e mare, si sente abbandonato. È una realtà che i procidani conoscono bene: un limbo in cui ogni minuto può fare la differenza tra la vita e la morte, e dove la sanità sembra essere un lusso riservato a chi vive sulla terraferma.
A raccontare questa situazione sono due medici veterani, due sentinelle silenziose che hanno dedicato la loro vita a combattere contro le onde dell’indifferenza e i venti contrari di un sistema sanitario che sembra aver voltato le spalle all’isola. Le loro storie non sono solo ricordi, ma un grido d’aiuto che si leva dalle onde del mare, un appello che non può più essere ignorato.
Il dottor Giacomo Retaggio è una figura emblematica per Procida, un medico che per decenni ha rappresentato il porto sicuro nei momenti di maggiore difficoltà. Le sue parole dipingono un quadro di straordinaria intensità, raccontando notti di guardia che sembrano uscite da un romanzo d’altri tempi. Quando il mare si alzava e le tempeste interrompevano ogni collegamento con la terraferma, il piccolo ospedale dell’isola diventava l’ultima speranza per chi aveva bisogno di cure.
“Ogni tazza di caffè era un’ancora di speranza”, ricorda il dottor Retaggio, descrivendo le lunghe ore trascorse a vegliare sui pazienti, mentre il rumore delle onde si mescolava ai sospiri di chi attendeva con ansia. Famiglie intere si aggrappavano a ogni spiraglio, sperando che il mare si calmasse abbastanza da permettere un trasferimento sulla terraferma. Ma spesso quella speranza si dissolveva come schiuma sulla battigia, lasciando solo il dolore e la consapevolezza di essere soli.
Procida, in quei momenti, diventava una prigione. Le ambulanze non potevano attraversare le onde, e gli elicotteri, quando il vento soffiava troppo forte, non potevano alzarsi in volo. La distanza tra la vita e la morte, allora, si misurava in chilometri d’acqua e in minuti che sembravano scorrere troppo velocemente. “In quei momenti ti senti impotente”, confessa il medico. “Senti il peso di un’isola che, per quanto bella, diventa un luogo di isolamento e di dolore.”
Il dottor Michele Cardito, un altro veterano della sanità isolana, non usa mezzi termini per descrivere la situazione. Per lui, il sistema sanitario di Procida è fragile come un castello di sabbia, pronto a crollare al primo soffio di vento. Il piccolo pronto soccorso dell’isola, pur rappresentando un gioiello di efficienza, non è in grado di reggere il peso delle emergenze. Il sistema burocratico è una marea montante, denuncia il medico, che ogni giorno deve affrontare la sfida di garantire cure adeguate in condizioni che spesso rasentano l’impossibile.
La sua testimonianza è un atto d’accusa contro un sistema che sembra aver dimenticato le isole. Procida è come una clessidra incrostata di sale. Il tempo qui scorre diversamente. Ogni minuto perso può significare una vita che si spegne. E medici e cittadini, si trovano a combattere contro un sistema che ci lascia soli, intrappolati in un isolamento che non è solo geografico, ma anche umano.
Quando il mare si alza, Procida diventa un mondo a sé. Le navi non possono partire, i soccorsi non possono arrivare, e l’isola si trasforma in una prigione per i malati e per chi cerca di assisterli. In quei momenti, ogni decisione diventa una questione di vita o di morte. E troppo spesso, il peso di quelle decisioni ricade sulle spalle dei medici, che devono fare i conti con la mancanza di mezzi, personale e strutture adeguate.
Le parole dei due medici non sono solo un ricordo, ma un grido disperato che si leva contro l’indifferenza. Procida chiede aiuto, come un naufrago che agita le braccia in mezzo al mare, sperando che qualcuno lo veda. È una richiesta di attenzione, di investimenti, di soluzioni concrete per garantire a tutti il diritto alla salute, anche in un angolo di mondo circondato dall’acqua.
Servono mezzi di trasporto adeguati, strutture moderne, personale specializzato. Servono elicotteri che possano volare anche con il maltempo, ambulanze che possano superare le onde, e una rete sanitaria che non faccia sentire gli isolani cittadini di serie B. Perché la bellezza di Procida non può essere una condanna. Nessuno dovrebbe sentirsi abbandonato, nemmeno in mezzo al mare.
Procida non può più aspettare. Ogni giorno perso significa vite messe a rischio, famiglie che vivono nell’angoscia, medici che lottano contro l’impossibile. È tempo che il grido dell’isola venga ascoltato, perché dietro le onde che si infrangono sulla costa, c’è una comunità che lotta per il diritto di vivere. E questo diritto non può essere negato, nemmeno a chi è circondato dal mare.