Redazione | «Finalmente la famiglia è completa. Papà è mio e adesso resta qui per sempre. Non parte più». Scuote la testa il piccolo Umberto mentre stringe forte il babbo, Vincenzo Ambrosino, appena rientrato a casa, a Procida, dopo sette mesi di prigionia passati a bordo della «Rosalia D’Amato», con cinque colleghi italiani e sedici filippini, in balia dei pirati somali. Non ha ancora compiuto sei anni, Umberto, ma ha già fatto i conti con la paura. Nonostante i tentativi di mamma Tonia di camuffare l’angoscia, ha sopportato con la maturità di un ometto il peso del dramma. Vincenzo Ambrosino, 45 anni, seduto nella cucina della sua casa. «Il pensiero torna sempre in Somalia. So che cosa vuol dire vivere, notte e giorno, sotto il tiro delle mitragliatrici. E continuo a immaginare la sofferenza di altri colleghi”. “Io ho temuto di morire. Ho avuto paura. Piangevo perché ero terrorizzato dall’idea di non rivedere più i miei figli. Ma non riesco a gioire pensando che laggiù ci sono altri mariti, padri e figli che rischiano la vita».
Tonia Falanga, 42 anni, casalinga, è la moglie di Vincenzo. Guarda l’uomo che ha sposato sette anni fa cercando di trattenere l’emozione. Questi sette mesi di prigionia hanno segnato anche lei per sempre. «E’ stato durissimo andare avanti e fare finta di niente per non spaventare i bambini», dice senza mai alzare la voce. «Pregavo la Madonna e Padre Pio affinché tutto finisse presto e bene. E soprattutto chiedevo alla Vergine Maria di dare a mio marito la forza di superare tanta sofferenza. Adesso spero che accada presto». «Abbiamo vissuto momenti davvero difficili», ricorda Vincenzo, che durante la prigionia è dimagrito tredici chili. «Quando hanno assaltato la nave, il 21 aprile scorso, noi dormivamo. Ale sei del mattino c’è stato l’allarme generale. Siamo riusciti a rifugiarci nella cosiddetta cittadella, un luogo inaccessibile dall’esterno die serve proprio a mettersi al riparo dagli attacdii dei pirati. Magli ufficiali di coperta, impegnati a governare la nave, sono rimasti fuori e sono stati presi in ostaggio. A quel punto siamo stati costretti a uscire: ci siamo trovati di fronte almeno 65 pirati armati con bazooka, kalashnikov e pistole. Ci hanno fatto stendere sul pavimento e poi ci hanno derubato. Ci hanno portato via i telefoni cellulari, gli oggetti d’oro, i computer, i vestiti e anche le fedi nuziali: avevo le lacrime agli occhi quando me l’hanno sfilata dal dito. Ma, per fortuna, il giorno dopo mi è stata restituita». Sospira, Vincenzo Ambrosino, ripensando a quei momenti terribili. Poi riprende il racconto «Per cinque giorni abbiamo avuto davvero paura di morire, anche perché ci sono stati tre conflitti a fuoco con una nave militare che cercava di liberarci. I pirati ci dicevano che, se avessero ammazzato uno di loro, dopo sarebbe toccato a noi finire uccisi. Poi, per fortuna, la situazione si è tranquillizzata. Ci hanno trasportato in Somalia e per sette mesi siamo rimasti in pieno Oceano Indiano. Non ci hanno mai trattato male e non abbiamo subito violenze fisiche, anche se ci costringevano a dormire tutti insieme sul ponte di comando. Però ci rifornivano di cibo e bevande: mangiavamo riso e capretto. E spesso si fernavano a giocare a carte con noi. Sapevano quello che succedeva in Italia e nel mondo: ci hanno informato quando è caduto il governo Berlusconi. E ci dicevano che i pirati del Nord, quelli che avevano preso in ostaggio la “Savina Caylyn”, erano più selvaggi e forse più pericolosi. Si definivano soldati. Temevano l’assalto dei clan rivali. Ma erano denutriti e malati e avevano un’età media di vent’anni. Erano davvero ridotti male: in qualche caso li abbiamo curati con le medicine die avevamo a bordo». Il racconto, già carico di emozione, diventa drammatico quando Vincenzo Ambrosino ricorda le ore concitate della liberazione. <<Il momento del rilascio è il più pericoloso. C’è sempre tensione e agitazione: il 25 novembre, intorno alle due del pomeriggio, ci hanno radunato sul ponte di comando e ci hanno detto di non muoverci. E rimasto un solo uomo a controllarci. Poi, all’improvviso è sparito anche lui. Quando abbiamo visto i bardimi allontanarsi abbiamo temuto die stessero per consegnarci a un’altra banda. Invece, dopo un’ora abbiamo capito che era finita davvero>>
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