Redazione | A distanza di tredici anni torna nelle librerie con una nuova veste grafica la riedizione del libro “L’isola nell’isola” di Giacomo Retaggio. Il libro edito da Edizioni Fioranna sarà presentato al pubblico nella splendida cornice di Santa Margherita nuova a Terra Murata nella serata dell’otto agosto. Da sempre attento osservatore ed acuto scrittore, Giacomo Retaggio riesce a fermare nelle parole momenti ed istanti che hanno segnato e segnano la vita della nostra isola. E le sue fatiche letterarie lo testimoniano da sempre ( Procida ed io: un anno o quasi, A Procida non caddero bombe, L’acqua del mare è salata, U viso, allarmi allarmi la campana sona, Intrighi e calunnie in sacrestia, il Cristo morto di Procida nebbia e mistero).
Lo abbiamo incontrato alla vigilia di questa nuova ri-presentazione e posto alcune domande:
Tredici anni fa con “l’isola nell’isola” sei stato uno dei primi a aprire una finestra sull’ex struttura carceraria. Il racconto di quegli anni vissuti con passione e dedizione. Un episodio o un aneddoto che non troveremo sul libro: “una sera, accompagnato da una Guardia, andai a far visita ad un detenuto ristretto in una delle celle di punizione, un cubicolo di un metro e mezzo per due con un pagliericcio per dormire sistemato su un basamento di pietra, nella famigerata IV sezione. Entrai per primo nella cella mentre l’agente si attardò qualche secondo nel corridoio. Non so come ma la serratura del cancello si bloccò ed io rimasi chiuso insieme al detenuto con la guardia fuori che non riusciva ad entrare. In quei momenti io ero alla mercé del carcerato mentre la faccia della Guardia rimasta fuori diventava sempre più pallida. Furono attimi di panico perché poteva succedere di tutto. Il detenuto, un uomo grande e grosso, mi avrebbe potuto ammazzare con un solo pugno e ne aveva anche la motivazione perché la punizione alla cella di isolamento gli era stata comminata dal Consiglio di Disciplina di cui io, in qualità di sanitario, facevo parte. Che fare? Ostentando una calma che in realtà non avevo mi sedetti sul giaciglio, accesi una sigaretta per me e per lui e cominciai a parlare del Napoli di cui lo sapevo essere tifoso. Mezz’ora durò quella chiacchierata mentre le guardie tentavano di aprire il cancello. Quando riuscii a venire fuori fui accolto come un redivivo”.
E cosa ti ha insegnato quest’esperienza e soprattutto cosa si può capire vivendo a contatto dei carcerati? Se la salute è la “libertà”, in un carcere dove non c’è “libertà” sono tutti malati? :”Chi non ha vissuto all’interno di un carcere non può conoscere appieno cos’è la vita e la società che ci circonda. Mi ha insegnato soprattutto a tentare di capire il mio prossimo, anche se ristretto in un carcere. Ogni uomo è un microcosmo a sé stante e va interpretato nelle sue sfaccettature e questo vale ancora di più per un detenuto. Il carcere è un incidente di percorso che può capitare a chiunque nella vita e proprio per questo ho imparato dalla mia esperienza di medico del penitenziario a non pronunciare mai giudizi aprioristici e a non essere estremamente giustizialista. Libertà e salute non sono sinonimi: nel carcere ci sono uomini sani e uomini malati allo stesso modo che nella società dei “liberi””.
Lasciamo per un attimo il libro. La Passione di raccontare una Procida partendo dalla sua storia in un tempo che tutto dimentica, ti ritieni un sopravvissuto o un eletto? :né l’uno, né l’altro. La storia, scrive B. Croce, è un coro che procede nel tempo e nessuna voce vi può risuonare nuova se non accogliendo in sé le precedenti. La conoscenza del passato è pregiudiziale per un’esatta valutazione del presente.
E in questo presente Procida cosa la rappresenta di più? Si dice, l’isola del carcere, l’isola di Arturo, l’isola di Graziella: Nessuna delle tre perché sono delle sovrapposizioni ,oserei dire, letterarie. Procida è un paese con una forte sua personalità, ricchissimo di un storia propria, abitato da uomini seri, lavoratori, forse un po’ chiusi, ma con un forte senso pratico ed alieni dalle esteriorità.
Torniamo al carcere e chiudiamo l’intervista: due date 1988-2013. 25 anni dalla chiusura e un progetto di valorizzazione di almeno 14 anni. Quarant’anni, una generazione persa?: 25 anni dalla chiusura più i 14 previsti per una qualsiasi soluzione sono veramente troppi! Ma l’alternativa qual è? L’opera di recupero del vecchio carcere è talmente vasta e difficile che io sarei felice e soddisfatto se i tempi rimanessero veramente questi. Io mi auguro di cuore che questi quarant’anni a cui ti riferisci tu rimangano tali e non si allunghino ancora di più. Chi vivrà, vedrà.
forza napoli!!!! sempre..;-)
complimenti al dottore e al suo libro che sicuramente acquisterò perché mi hanno intrigato le sue parole nel racconto di quello che è successo nella cella scura.
alla prossima
MDL
complimenti al sig retaggio uno dei pochi storici della nostra isola…